«Così una volta mi disse il demonio: “Anche Dio ha il suo inferno: cioè il suo amore per gli uomini”.
E recentemente l’ho udito pronunciare queste parole: “Dio è morto; la sua compassione per gli uomini lo ha ucciso”».

Voleva essere provocatorio e bestemmiatore Nietzsche con queste due frasi. Sono espressione del suo manifesto contro l’etica cristiana fondata sui pilastri delle beatitudini, una morale «del gregge» che si esprime nel volto della misericordia, duramente denunciata dal suo Zarathustra.

Cominciamo con le parole della seconda frase: «Dio è morto; la sua compassione per gli uomini lo ha ucciso». Quest’affermazione può benissimo riassumere l’autodonazione di Gesù. Nietzsche, però, racconta la vicenda a metà. Gli sfugge la parte migliore: se «Dio è morto», è perché ha accettato la morte per dare la vita, per vivificare l’uomo. 

La sua compassione non è stata la malattia congenita che l’ha ucciso a sua insaputa. Cristo coscientemente «ci ha amato e ha dato se stesso per noi» (Ef 5,2; cf. Gal 2,20). «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13). 

Caterina da Siena scrive ripetutamente che non sono stati i chiodi a tenere Gesù in croce, ma il suo amore: «Questo è il frutto della santissima Carità, che fu quello legame che tenne Dio in croce; perocché né chiodi né croce sarebbero stati sufficienti a tenerlo confitto in croce, ma solo il legame della Carità il tenne».


Il suo dono d’amore compassionevole non è stato la malattia, ma la cura. Egli è stato il nostro «Farmaco di vita», secondo la bella espressione di Efrem il Siro. La sua vita non gli è stata strappata, è stata un dono che è sgorgato dall’Amore che lo unisce al Padre, quell’Amore immenso con cui Dio ha amato il mondo e che, nel Figlio, è stato riversato carnalmente su di noi: «Nessuno mi toglie [la mia vita]: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio» (Gv 10,18).


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È più provocatoria e positivamente evocativa la prima frase: «Anche Dio ha il suo inferno: cioè il suo amore per gli uomini». Se colta nella valenza giusta, questa frase fa presagire lo scandalo ineffabile della passione e della com-passione di Dio. «L’inferno di Dio» è un’immagine estrema che evoca un concetto limite, anzi, un concetto che travalica ogni limite: quello di Dio che si lascia trafiggere dall’amore per l’uomo. Con questa espressione Nietzsche è più vicino alla Sacra Scrittura di tanta filosofia e teologia dell’impassibilità divina.


La domanda di fondo è questa: Dio può soffrire? Dio può patire? La risposta non deve scivolare facile da labbra gelose di una presunta perfezione divina fatta di impassibilità, perché la messa in gioco è infinita. «Se il concetto di un dio passibile è uno scandalo per la ragione, la realtà di un dio impassibile rivolta il cuore che ha le proprie ragioni» (F. Varillon). In altri termini, se da un lato un dio che patisce le passioni non è più “Signore” ma schiavo delle emozioni, dall’altro lato, un dio impassibile è prigioniero della sua presunta perfezione, incapace di compatire, di amare, anzi, incapace di essere amore (cf. 1Gv 4,8.16).
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La misericordia è una grande risposta di Dio, ma è anche una grande fonte di domande: 
Come potrebbe Dio commuoversi e rimanere perfetto (vi ricordate la storia del "motore immobile", no?)? 

Cosa insegna l'Antico Testamento sulla misericordia? 
Ma poi tutta questa "ira di Dio" come si concilia con la misericordia? 

E il Nuovo Testamento?

... e noi, dove ne siamo di questa misericordia? Come esercitarla?

P.s.: il libretto "Rahamim" è disponibile e/o ordinabile nelle varie librerie cattoliche. Ed è disponibile online 

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