kid playing soccer

Se guardiamo gli scritti di alcuni antichi scrittori ecclesiastici, ma anche di qualcuno fra i Padri della Chiesa che ha affrontato il tema gioco-fede, ci troviamo davanti ad affermazioni adamantine di rifiuto. Per cui – specie per chi ama lo sport – siamo tristemente invitati, con la coda tra le gambe, di allontanarci dalla passione per lo sport e dalla prassi sportiva. Nondimeno, fare così sarebbe un grande errore ermeneutico.
Prima di cercare la corretta ermeneutica, è bene guardare qualche affermazione esemplificativa. Tertulliano affermava che chi avesse promesso alla fonte battesimale di rifiutare le opere del diavolo e dei suoi angeli non poteva partecipare alle manifestazioni di natura diabolica. Lo sport, secondo lo scrittore nord-africano, rende furiosi, collerici e litigiosi. Gli schiamazzi e gli scherni ingiuriosi non si conciliano con la mitezza cristiana. Dal canto suo, Clemente Alessandrino considerava l’ippodromo come «sede di disordine e iniquità». Forse nella stessa linea George Orwell considerava lo sport moderno come «una guerra senza fucili» o come «una religione senza i sacrifici»?
Il motivo dietro l’avversione
Perché questo rifiuto però? È corretto interpretarlo semplicisticamente come rifiuto costituivo dello sport e del gioco? Niente affatto. Le affermazioni vanno contestualizzate e comprese a partire dalle sfide alle quali volevano rispondere.
Nel suo libro Breve teologia dello sport, Lincoln Harvey ci ricorda che il problema riguardante lo sport al tempo dei primi cristiani era abbastanza chiaro: gli eventi sportivi non erano solo eventi ludici o culturali, erano eventi rituali e cultuali. Per questo lo sport era strettamente legato all’idolatria. Così Giovanni Crisostomo ricorda che «i giochi pubblici a Dafne erano irrimediabilmente contaminati dalle loro pompose processioni, durante le quali demoni danzavano e al diavolo venivano resi grandi onori».
Il problema, quindi, non era di incompatibilità tra sport e fede, ma tra quel tipo di sport e gioco, commisto visceralmente con il paganesimo e i riti idolatrici, e l’attività sportiva. Gli stessi padri e scrittori, infatti, affermavano la dignità del corpo creato da Dio, quel corpo assunto da Cristo. Celebre è la frase di Tertulliano: «Cardo salutis caro»: la carne è cardine della salvezza. Il suo De resurrectione carnis è anche una teologia dell’incarnazione e della corporeità.
Per una teologia del gioco e dello sport
Come ogni questione va contestualizzata e la domanda che rimane tutt’ora attuale è: c’è un senso spirituale e teologico dell’attività sportiva?
Il libro di Harvey, oltre ad offrire una rassegna storica sull’atteggiamento delle grandi culture verso il gioco e lo sport (la rassegna va dalla greco alla romana, dal cristianesimo antico al medioevo e ai nostri tempi), propone una riflessione teologica – semplice nella sua sistematicità – sul senso teologico del gioco e dello sport.


Già nelle pagine introduttive del libro scopriamo questo sentore: «Questo libro è dedicato a Rose Harvey, mia figlia. Nel suo breve tempo con noi, Rose mi ha insegnato più di chiunque altro che la vita non è così seria, ma che il suo senso è l’amore». Questa dedica appare come la sintesi. Nel gioco c’è una saggezza che riconosce la relatività del nostro essere e del nostro agire e vive questa relatività sullo sfondo dell’unico assoluto: l’amore di Dio.
«Sport» deriva da «diporto» e implica il «portare fuori», il liberare l’uomo dalle relazioni di necessità per entrare nella dimensione della gratuità. Così il gioco e lo sport possono manifestare una dimensione «liturgica». Qui, se assumiamo la metafora di Romano Guardini, ovvero che la creazione e la liturgia sono il gioco di Dio, possiamo dire analogamente che il gioco è «la liturgia della nostra contingenza». In questo senso, il gioco si manifesta nella vita come espressione della libertà dinanzi alle necessità e come riscatto dalla dimensione dell’utile.
Probabilmente il gioco è una delle dimensioni in cui il nostro essere si avvicina a quello dei bambini, i prediletti di Gesù. Come ricorda Guardini, «nel gioco il bambino non si propone di raggiungere nulla, non ha alcuno scopo. Non mira ad altro che ad esplicare le sue forze giovanili, ad espandere la sua vita nella forma disinteressata dei movimenti, delle parole, delle azioni, e con ciò a crescere, a diventar sempre più perfettamente se stesso. Senza scopo, ma piena di significato profondo è questa giovane vita».
Deus ludens
La dimensione teologica per eccellenza va ben oltre la nostra esperienza. Il «gioco» è nell’essere stesso di Dio. La sapienza veterotestamentaria, che per i Padri è allegoricamente il Logos, gioca al cospetto di Dio e si diletta con i figli dell’uomo. La sapienza di Dio non è una soffocante serietà, ma è una gioiosa gratuità, una lucida ludicità.
La libertà dell’atto creatore, un cardine della fede giudeo-cristiana, esprime la ludicità del primo atto di Dio verso l’esterno. Dio non crea obbligato dalla necessità, Dio è perfetto in se stesso, non aveva bisogno di creare l’alterità del mondo. In questo senso, creare per Dio  rientra nella dimensione dell’«inutile». Dio crea non per necessità, ma per amore; non per bisogno, ma per grazia; non per carenza, ma per eccedenza.

A ragione, nel suo classico homo ludens, Hugo Rahner sottolinea come l’attività creatrice di Dio va intesa come «il gioco di Dio». Dinanzi al Deus ludens l’uomo è chiamato ad essere homo ludens, a vivere seriamente la graziosa esistenza di figlio.