Un uomo che sa di cosa parla quando parla di soffrire, Viktor Emil Frankl, scrisse una volta: «L’uomo che soffre, matura se stesso, matura di fronte alla verità. La sofferenza possiede non solo una dignità etica; essa ha una rilevanza metafisica, perché rende l’uomo perspicace e il mondo trasparente. L’essere diviene trasparente nel profondo di una dimensionalità metafisica».
In parole povere, Frankl dice che soffrire non ha solo un peso morale. Soffrire ti fa diventare una persona nuova, ti fa vivere altre vite, altre età, ti apre a una sapienza che non trovi nei libri. Certo – e lo dice lo stesso Frankl –  è patologico desiderare di soffrire (tranne nel caso di alcuni mistici e santi che hanno avuto il “carisma” di desiderare di portare la croce di Cristo e di portarla effettivamente), ma niente è più desiderabile per chi si trova senza volerlo sotto il peso della croce che soffrire bene, soffrire “con profitto”. Tutte queste parole andrebbero messe tra parentesi perché bisogna pesare bene le parole quando si parla del peso della croce.
Ma basta con le introduzioni, la “passeggiata nei libri” questa volta è molto speciale, è una passeggiata nel volume Dell’Amore e della Notte di Chiara M.. Il volume raccoglie due testi di Chiara M.: Crudele dolcissimo amore e Oscura luminosissima notte.
Chiara vive a Trento e per anni è stata una ragazza normale che ha vissuto una normalità simile a tanti, diventando anche infermiera professionale… questa normalità viene spezzata da lei (così chiamerà la rara malattia degenerativa che la colpì a vent’anni e per la quale ancora non c’è cura e che l’ha costretta nel tempo su una sedia a rotelle).
Il volume va lento nelle prime 62 pagine. Devo essere onesto, non sapendo cosa sarebbe arrivato dopo, mi chiedevo quando il libro avrebbe rispecchiato l’intrigo del titolo e temevo di essermi preso un abbaglio poco promettente… ma da pagina 62 in poi inizia una salita che fatichi a lasciare il libro, una salita non di poesia, una salita nel calvario, dove fatica e forza inspiegabile, disperazione e speranza si intrecciano e impari tante lezioni che solo chi ha sofferto e chi soffre sa incidere così bene nell’anima.



«Ad un congresso di giovani a Roma, nel ’76, rivedo Chiara Lubich. In quell’occasione ci parla dell’abbandono di Gesù sulla croce, quell’abbandono che Lui ha sentito nei confronti del Padre e che gli ha fatto urlare: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?». Ne ricevo un’impressione fortissima e la scelta, al di là di ciò che sarebbe stata la mia strada nella vita, di metterlo nel mio cuore al primo posto davanti a tutto e tutti» (62).
Quel sì a Gesù, detto nell’entusiasmo giovanile spalancherà a Chiara M. la strada della partecipazione al suo grido abbandonato, un grido lungo che dura da decenni. La parola che Chiara Lubich sceglierà profeticamente per lei è: "Ti seguirò dovunque tu vada” (Lc 9,57).
La croce è a volte bella da nominare, ma raramente dolce da portare. La sofferenza è sempre sofferenza. Ma nei momenti di lucidità spirituale l’anima viene consolata dalla comunione con l’Amato. Come ci spiega Chiara: «È bello pensare che la mia croce assomiglia un po’ alla Tua. A Te hanno piantato i chiodi, a me piantano aghi senza risultato. Amare è anche soffrire questi piccoli dolori» (68). Ma la comunione con il crocifisso è anche comunione nel suo grido impaurito dinanzi al Padre: «…tante volte mi viene da pensare: “Sono giovane, ho la vita davanti, perché devo ‘perdere tempo’ a soffrire?”».



Ma come Gesù crocifisso che, gridando il suo perché poi grida il suo abbandono nelle mani del Padre, anche Chiara trova in Gesù abbandonato la sua forza di imitarlo: «Io ho scelto una cosa sola nella vita, prima di tutto il resto: Te, crocifisso e abbandonato e ti riscelgo sempre, attimo dopo attimo nell’incertezza, nel buio, nel vuoto».
Il dolore può essere solo insensato se non viene gettato nell’abisso di senso che è Cristo. In risposta a una delle tante lettere doloranti che Chiara M. scrive a Chiara Lubich, la fondatrice del movimento dei focolari scrive: «… la tua vita è preziosa proprio perché Gesù Abbandonato è vivo sia nel tuo fisico, come negli stati d’animo che passi… anche nei momenti in cui ti senti incapace di fare qualcosa, sei Lui che in te rivive un attimo del Suo grido».
In un’altra lettera Chiara Lubich consola Chiara per i momenti di défaillance: «Se qualche volta il dolore è acuto e sembra toglierti la capacità di amare e di offrire, non ti preoccupare: anche Gesù sulla croce ha gridato» (73).
Il senso del nostro patire a volte è celato ai nostri occhi proprio che le radici non vedono la chioma dell’albero, per questo soffrire per amore – che è spesso un soffrire nella notte – è un grande atto di fede che affonda le radici nella fiducia del Figlio che, abbandonato sulla croce, si abbandona nelle mani del Padre.
E come in Cristo siamo stati rigenerati dall’assurda sofferenza della croce, così ogni cristiano che si unisce a Gesù abbandonato diventa un grembo fecondo che contribuisce alla rigenerazione della creazione, alla rigenerazione dei figli di Dio.
Ho già detto tanto di questo libro che è difficile lasciare senza averlo finito… chiudo con una delle tante perle che Chiara Lubich lascia a Chiara in risposta alle sue lettere: «È proprio il tuo rivivere Gesù Abbandonato, soprattutto nei momenti di sconforto e di gran solitudine, la radice che permette a tanta vita di svilupparsi con frutti copiosi nell’Opera e nella Chiesa…».
Le pagine di questo testo fanno toccare con mano e con il cuore la radice di questa fecondità, una Parola che riecheggia dal silenzio della croce, dal grido di Gesù abbandonato che squarcia il velo di ogni dolore mostrando il volto dell’Amore, del Crudele Dolcissimo Amore.
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