Cari amici di theologhia.com, ecco a voi la terza meditazione sul Vangelo per la Quaresima tratta dal libro Un Dio umano. Primi passi nella fede cristiana. Il testo di oggi è una meditazione sull'incontro tra Gesù e la Samaritana. Dato che il testo è più lungo degli altri già condivisi, viene pubblicata soltanto una selezione di paragrafi. Come la consuetudine vi auguro buona preghiera.
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Il Vangelo è un luogo dove Gesù diventa contemporaneo mio e io divento
contemporaneo suo. Ogni incontro è un invito, una chance affinché la
parola di Dio si adempia per me e diventi carne in me, affinché Colui che è
venuto «a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la
liberazione e ai ciechi la vista» (Lc 4,18; Is 61,1) sia vera letizia, liberazione
profonda e visione per me.
L’arte di leggere il Vangelo consiste nel leggersi nel Vangelo. In
questo modo leggiamo l’incontro di Gesù con la Samaritana (Gv 4,1-42). Gesù si
rivolge certamente a quella donna, ma al tempo stesso a ogni persona che ancora
non ha scoperto la profondità della propria sete. L’inno medievale Dies Irae
evidenzia questo elemento: «Quaerens me sedisti lassus» (cercando
me, stanco, ti sedesti).
Ma partiamo dall’inizio. Gesù vuole dirigersi dalla Giudea alla Galilea
e per questo – ci dice il testo – «doveva attraversare la Samaria».
Questo dovere non è geografico, siamo dinanzi a un dovere teologico
dettato dall’amore e non dalla necessità. Ci ricorda il «devo fermarmi a
casa tua» che Gesù rivolge a Zaccheo (cf. Lc 19,5).
A Sicar, Gesù si siede esausto presso il pozzo di Giacobbe. Questa
stanchezza e questa debolezza si rivelano occasione di salvezza. Scrive
Agostino:
La forza di Cristo ti ha creato, la debolezza di
Cristo ti ha ricreato. La forza di Cristo ha chiamato all’esistenza ciò che non
era, la debolezza di Cristo ha impedito che si perdesse ciò che esisteva. Con
la sua forza ci ha creati, con la sua debolezza è venuto a cercarci.
La debolezza fisica di Cristo manifesta la sua kenosi, l’essersi
svuotato per venire incontro all’uomo, la sua con-discendenza per sollevare l’uomo
(cf. Fil 2,7).
Sono paradossi e il paradosso non è la dimora dell’assurdo, ma il
terreno fertile per intuire la grandezza del Dio irriducibile a qualsiasi idea
umana di grandezza, e per percepire il suo éros manikón (amore folle),
più saggio di ogni sapienza umana.
«Era circa l’ora sesta»: è la stessa ora in cui Gesù viene crocifisso.
La croce è il luogo per eccellenza dove la debolezza di Gesù diventa la nostra
forza, la sua condanna diventa il nostro riscatto e dove le sue ferite
diventano la nostra guarigione (cf. Is 53,5). Lo stesso inno citato sopra mette
in parallelo il pozzo e la croce: «Quaerens me sedisti lassus; redemisti
crucem passus» (Cercando me, stanco, ti sedesti; mi hai redento patendo la
croce). Entrambi i posti sono luoghi nuziali.
Nella memoria biblica, i pozzi sono luoghi nuziali dove i patriarchi
hanno incontrato le loro mogli. Il servo di Abramo trova Rebecca, la futura
moglie di Isacco, presso un pozzo (Gen 24); anche Giacobbe incontra l’amata Rachele
in una situazione-pozzo; Mosè fa il primo incontro con Debora al pozzo (Es 2).
Giovanni ci insinua una lettura nuziale dell’episodio della Samaritana e dell’incontro
tra Dio e l’umanità nell’Incarnazione. Il Verbo si è fatto carne per sposare la
nostra umanità.
Ricordiamoci che la Samaritana rappresenta simbolicamente l’incontro di
Gesù con i pagani, dopo che il capitolo tre di Giovanni ha presentato l’episodio
di Gesù con Nicodemo quale incontro simbolico di Gesù con il giudaismo.
Tornando all’ora, essa corrisponde a mezzogiorno, un’ora insolita per
andare ad attingere acqua al pozzo. La donna va a quell’ora con «la segreta
speranza di non incontrare alcuno» (Elena Bosetti), per evitare gli incontri
indesiderati, gli sguardi indiscreti di giudizio e condanna. Ha una vita che
non vuole sia guardata.
«Dammi da bere». Chiedere è aprirsi, è esporsi, è assumere un rischio.
Rispondere e dare, d’altro canto, è segno di capacità di amare, di libertà
interiore. Al pozzo, il servo di Abramo vede nella generosità il segno divino e
distintivo della donna che merita come sposo il figlio del suo padrone (Gen
24). La Samaritana è fatta apparentemente di un’altra pasta. All’apertura
risponde brusca obiettando: «Come mai, tu che sei giudeo, chiedi da bere a me,
che sono una donna samaritana?». I cliché sono comodi per nascondersi.
Quell’uomo inopportuno, però, non si ferma né all’apparenza, né ai cliché.
Ribatte insinuando un dubbio sulla sua identità: «Se tu conoscessi il dono di
Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed
egli ti avrebbe dato acqua viva».
È strano questo giudeo: da assetato diventa dissetante. «Chiede da bere
– dice Agostino – e promette da bere. È bisognoso come uno che aspetta di
ricevere, ed è nell’abbondanza come uno che è in grado di saziare». Agostino
capisce che Gesù ha sete della fede e della risurrezione della donna.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci fa vedere come «Dio ha
sete della nostra sete. Dio desidera che noi abbiamo desiderio di lui» (n.
2560). Quella stessa sete Gesù la griderà sulla croce: «Ho sete» (Gv 19,28).
A questo punto, la Samaritana non lo chiama più giudeo ma «signore». La
donna esprime, comunque, i suoi sospetti riguardo alla fattibilità della
proposta (v. 11). Allora Gesù fa il paragone tra due acque: «Chiunque beve di
quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non
avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una
sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna».
La donna fraintende il senso spirituale del discorso di Gesù, come i
giudei fraintenderanno il discorso sul «pane di Dio che discende dal cielo e dà
la vita al mondo» (cf. Gv 6,33ss.). Nondimeno, la provocazione di Gesù
raggiunge l’obiettivo: la donna si apre e chiede: «Dammi quest’acqua!».
Chiede acqua, solo acqua. Non ha ancora colto la sua vera sete, quella
dell’amore, quella della redenzione del suo finito nello spazio dell’Infinito.
Non ha ancora capito quello che Simone Weil capì sulla fame dietro la fame e la
sete dietro la sete:
Quando si è al limite della sete, quando si è ammalati
di sete, ci si raffigura soltanto l’acqua, l’acqua in sé, ma questa
raffigurazione dell’acqua è come un grido di tutto l’essere.
La donna è messa in contatto con la sete, ma non ancora quella più
profonda. Gesù rincara la dose: «Va’ a chiamare tuo marito». La Samaritana,
però, non solo non vuole essere guardata, non vuole neppure guardarsi nella
propria verità: «Io non ho marito». «Hai detto bene… infatti hai avuto cinque
mariti e quello che hai ora non è tuo marito».
Con arte, Gesù mette a nudo il suo cuore senza ricoprirla di vergogna. È
la particolarità dello sguardo d’amore che non riduce l’altro a oggetto, ma lo
solleva dalla vergogna dell’indegnità.
La donna sentiva ribrezzo e non si guardava in faccia, Gesù la ama più
di quanto ella potesse amare se stessa, e così la mette delicatamente e
teneramente, non davanti al proprio fallimento, ma dinanzi alla grandezza della
sua sete che ha esaurito la linfa dei suoi vari matrimoni. Gesù la invita a
cogliere dietro ogni delusione la sua originaria illusione, per aprire i suoi
occhi alla sua primigenia protensione, al suo desiderio fondamentale. L’altro,
dono di Dio, non è Dio, ma un compagno di viaggio verso il volto dell’Altissimo.
«Solo in Dio riposa l’anima mia» (Sal 62,2). Solo Dios basta (Teresa d’Avila).
[...]
Chi ha sperimentato la fiamma dell’amore capisce un po’ quello che si
dice dell’amore di Dio: «Ubi amor ibi oculus» (se si ama, si vede anche)
. «Colui che ama – dice Agostino – vede l’amore, e chi vede l’amore vede
Dio» perché vediamo Colui a cui assomigliano.
Guglielmo di Saint Thierry, un mistico medievale, ci ricorda
che «l’amore è l’occhio con cui si vede Dio». Solo se amiamo, possiamo credere
e capire cosa vuol dire credere. Per questo Agostino afferma:
Dammi un cuore che ama, e
capirà ciò che dico. Dammi un cuore anelante, un cuore affamato, che si senta
pellegrino e assetato in questo deserto, un cuore che sospira la fonte della
patria eterna, ed egli capirà ciò che dico. Certamente, se parlo ad un cuore
arido, non potrà capire.
I cuori invecchiati e chiusi nei pregiudizi non possono
aprirsi a Dio; i cuori che si aprono alla forza anti-aging dell’amore
possono aprirsi a Dio. Anche Gesù è un innamorato. Ai discepoli che, tornati
dal procurare il cibo, gli dicono: «Rabbì, mangia», Gesù risponde: «Il mio cibo
è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera».
La donna diventa missionaria e annuncia Gesù ai suoi
concittadini. E verso la fine di questo episodio c’è un altro parallelismo tra
due modi di conoscere Gesù: il primo è conoscerlo per sentito dire; l’altro è
conoscerlo per esperienza personale.
Accontentarsi di una fede di seconda mano e di una fede
ereditata somiglia a preparare un infuso con un filtro già usato e a vestirsi
con gli abiti ritagliati per un altro. Una fede così è sbiadita, insipida e
cade male. Per gustare la dolcezza del Signore, bisogna conoscerlo in prima
persona.
Karl Rahner ci ricorda che il cristiano di oggi, o è un mistico
che costruisce un’esperienza personale con il Padre sulla roccia di Gesù Cristo
nello Spirito, o è una casa costruita sulla sabbia che come foglie al vento
vola instabile e inquieta verso ogni dove.