Pochi anni dopo la sua partecipazione come esperto al Concilio Vaticano II, Joseph Ratzinger dà alle stampe, nel 1972, un testo che echeggia l’ecclesiologia del Concilio dal titolo Il nuovo popolo di Dio. In questo testo, Ratzinger sottolinea – per usare un termine polisemico di Jean-Luc Marion – la natura «a-donata» della Chiesa affermando che «la Chiesa non è una cerchia a sé stante di salvati, intorno alla quale esisterebbero i condannati; essa esiste piuttosto, per sua essenza, per gli altri, una realtà concreta aperta agli altri. E siamo qui in effetti nell’ambito della missione: essa è infatti anzitutto semplicemente l’inevitabile ed indispensabile espressione di quel ‘per’, di quell’apertura, che determina profondamente la chiesa a partire da Cristo. Quale segno dell’amore divino, quell’essere gli uni per gli altri attraverso il quale la storia è stata salvata e ricondotta a Dio, la chiesa non dev’essere un circolo esoterico, ma è essa stessa essenzialmente uno spazio aperto». Queste poche righe potrebbero riassumere l’intento dell’imponente saggio di Roberto Repole, La Chiesa e il suo dono. La missione fra teo-logia ed ecclesiologia, pubblicato per i tipi della Queriniana.
Come struttura, il volume consta di una introduzione, due grandi parti con un totale di sette capitoli e un epilogo. Come tesi, l’A. propone di fare una lettura della missione, nel mutato contesto dell’Occidente, in chiave di dono, quale «sentiero» ermeneutico per rileggere la missione ecclesiale «in un modo che sia, al tempo stesso, fedele ai dati fondamentali della Rivelazione attestata dalla Scrittura e trasmessa dalla Chiesa e capace di risultare vivo, reale e plausibile nell’oggi» (p. 154).
Già il titolo – La Chiesa e il suo dono – costituisce una dichiarazione di intenti. Esso esprime già qualcosa di quanto costituirà il fulcro del percorso che si troverà nelle pagine del libro. «La Chiesa vive di un dono, quello divino, e ciò che trasmette realmente è solo il dono di cui vive, il quale può essere mantenuto in quanto donato ad altri: nell’unica forma possibile, quella del dono appunto che, come si vedrà, è autentico solo a determinate condizioni. Si tratta di un paradigma che pare adatto ad uscire da una delle accuse che esplicitamente ed implicitamente viene fatta oggi ad ogni proposta di missione, di rappresentare cioè sempre e comunque una forma di violenza; senza cadere per questo in una riduzione della missione a dialogo in assenza di verità». 

La Chiesa e il suo dono
La Chiesa e il suo dono
Roberto Repole

Nella prima parte, l’A. tematizza la necessaria circolarità tra la missione costitutiva della Chiesa e il contesto di tale missione. «La Chiesa offre il Vangelo al mondo sempre e solo dall’interno della cultura in cui vive» (p. 11). Per questo motivo, risulta indispensabile effettuare un auditus temporis et alterius necessario per trovare un «nuovo paradigma» missionario che esprima nell’oggi la perenne natura missionaria della Chiesa.
Il primo capitolo riflette, quindi, sulla missione della Chiesa tra natura e contesto, argomentando che proprio perché la Chiesa esiste nella storia e in un contesto, le contingenze storico-culturali non le sono indifferenti. La circolarità ermeneutica è opportunamente sottolinea da Giacomo Canobbio che scrive: «di fatto la Chiesa si modella in dipendenza dalle circostanze storiche che determinano le modalità della missione; questa, a sua volta, si struttura a seconda dell’idea di Chiesa con la quale si procede. C’è una circolarità tra missione e figura di Chiesa».
Il secondo capitolo riprende il cruciale tema dell’inculturazione della missione della Chiesa e riflette sulla sfida evangelizzatrice sullo sfondo della secolarizzazione. Tra i vari interlocutori con i quali l’A. si interfaccia primeggiano G. Vattimo, C. Taylor, U. Beck e Z. Bauman. Accogliendo criticamente le varie provocazioni di questi attenti lettori della postmodernità, l’A. delinea il profilo di una missione possibile nel nostro tempo contraddistinto dalla secolarizzazione, dal pluralismo culturale e religioso, dalla liquidità e dalla virtualità tecno-comunicativa. Alcune delle sue caratteristiche sono: la sfida di una missione che non si proponga o imponga come un atto di violenza o di prevaricazione, ma che si fondi sul polo imprescindibile della caritas; un ripensamento del modello missionario che renda ragione della speranza cristiana nel contesto della possibilità della non credenza, assumendo cioè la secolarizzazione non come «la fine della fede ma di un certo tipo di credenza» (p. 78); l’assunzione dello strutturale pluralismo della ricerca religiosa, di personalizzazione dei cammini di spiritualità e di anelito all’autenticità. Queste e altre sfide impongono un ripensamento della missione perché sia adeguata per l’oggi, senza tradire le sue radici, ma costruendosi sullo sfondo di altri modelli del passato.
Il terzo capitolo espone sostanzialmente quattro paradigmi missionari. Il primo è il paradigma dell’antichità cristiana quale tempo dell’inculturazione e della plantatio ecclesiae. Il paradigma medievale della «missione realizzata» dove il cristianesimo aveva una sua particolare localizzazione e i missionari “uscivano” per andare a predicare agli infedeli. Una missione contraddistinta come «contra gentes» (cf. p. 89).  Il terzo paradigma è quello che accompagna la scoperta delle Americhe e che risveglia la coscienza missionaria come ad gentes in quanto si scopre – secondo una felice espressione di S. Xeres – che «il paganesimo non era più soltanto alle spalle ma, nuovamente, di fronte». La quarta sfumatura di paradigma è la rinnovata coscienza generata dall’onda conciliare e che potrebbe essere riassunto con le parole di Paolo VI nella Evangelii nuntiandi dove afferma che evangelizzare «è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare».
Il quarto capitolo accoglie la sfida dei paradigmi precedenti e propone, nella declinazione della categoria del dono, una chiave feconda perché la Chiesa possa interpretare il suo ruolo, anzi, la sua identità missionaria. L’A. dialoga criticamente con il decostruzionismo di J. Derrida che nega la possibilità del dono e J.-L. Marion che propone caratteristiche che consentono al dono di sussistere e di essere tramandato. Marion parte dall’analogatum della paternità il cui dinamismo evidenzia come la possibilità di diffondere il dono avviene solo donando ad altri. Il ricevente, a sua volta, garantisce la permanenza del dono attraverso ciò che Marion chiama «la ridondanza del dono», rimettendolo cioè in circolo appena lo ha ricevuto.
La seconda parte del volume costituisce in sostanza una declinazione teo-logica delle categorie della fenomenologia del dono desunte da Marion. La Chiesa è chiamata ad accogliere il dono trinitario e a ridondarlo «in un’attivazione della libertà personale che implica anche sempre un’interpretazione viva di quanto si è ricevuto e si trasmette ad altri. La ridondanza implica cioè sempre una “fedeltà creativa”» (p. 149).
Il capitolo quinto che apre la seconda parte riflette sul dono fondamentale e fondativo, la vita trinitaria. Il capitolo è un ricco prisma di riflessione teologica che attraversa la dogmatica trinitaria, cristologica, soteriologica e pneumatologica per evidenziare quanto il filo d’arianna del dono sia pertinente, pervasivo e trasversale in quello che riassuntivamente si può chiamare con l’A. «il Dono che fonda la Chiesa». Dalla riflessione si evince che il dono d’amore con il quale Dio agisce ad extra è radicato nell’amore che Dio è ad intra e si fonda su di esso. «Se c’è nel mondo una autodonazione radicale di Dio è perché essa si fonda su quella ancora più radicale di Dio in se stesso» (p. 211). La donazione trinitaria si esprime coerentemente nella creazione, nell’incarnazione, nella redenzione e nel dono dello Spirito Santo il cui nome proprio nella Trinità, come intuito dalla teologia tradizionale, è proprio «il Dono».
Il capitolo sesto esplora il vissuto che la Chiesa è chiamata a vivere prima di ridondarlo e proprio per poterlo ridondare. Due interlocutori risultano privilegiati in questa sezione: H. Mühlen e I. Zizioulas. Il primo, in particolare, evidenzia, con la sua celeberrima espressione che definisce la Chiesa «una Persona (lo Spirito) in molte persone (in Cristo e in noi)», come la Chiesa è chiamata in primis a vivere del dono ricevuto. Ne risulta che la Chiesa è anzitutto missionaria per il fatto stesso di corrispondere gratuitamente alla graziosita del Padre, partecipando della reciprocità del Figlio nello Spirito Santo.
Solo su questo fondamento si può parlare di «ridondare il dono», tema del settimo e ultimo capitolo che riflette sulla Chiesa missionaria in questo mondo. In questo capitolo l’A. sottolinea come la Chiesa «non potrebbe essere fedele al dono che la abita e la fa esistere se non rendendolo disponibile per altri» (p. 316). L’ecclesiogenesi non potrebbe essere in alcun modo ridotta ad un momento puntuale, ma a una perpetua perpetrazione del Dono, ricevuto e ridondato.

In breve, la «Chiesa trasmette il dono che la fa vivere, trasmettendo se stessa, in un annuncio e in una pratica con cui offre ad altri di partecipare dell’ospitalità in Cristo di cui essa beneficia, nell’unico dinamismo in cui ciò sembra ancora plausibile nel tempo attuale, della fine della cristianità, della secolarizzazione e del pluralismo religioso» (p. 400).



Robert Cheaib
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