Per molto tempo il nome di Dio rivelato in Esodo 3 è stato assorbito dalla filosofia greca dell’essere, (im)ponendo la questione sul piano di una necessaria reciproca esclusione tra il Dio immutabile e il Dio che si muove e si commuove. Riflettere su questo tema diventa ancor più impellente nell’anno della misericordia. Come può l’immutabile essere tenerezza, chinarsi e commuoversi visceralmente per le sue creature?
Il libro La tenerezza grembo di Dio amore, di Carlo Rocchetta e Rosalba Manes, attraverso lo studio della teologia della tenerezza nell’AT, nel NT e nella Chiesa apostolica, mostra una particolare sensibilità a questa tematica. Già analizzando il testo di Es 3, gli Aa. evidenziano che la qualifica di Dio – Ehyeh asher Ehyeh - «non va letta in senso ontologico (prospettiva estranea alla mentalità biblica), ma come l’attestazione di un esserci del Signore, un Dio-che-è-per-il-suo-popolo». Non si tratta dell’affermazione del semplice essere di Dio, ma del suo impegnato e impegnativo esserci.
Risvolti teologici della tenerezza
Gli Aa. spiegano che «manifestando il suo nome, il Signore non si qualifica dunque in se stesso, nella sua assolutezza, ma nella relazione d’amore che intrattiene con Israele, presentandosi come colui che assicura a Mosè la sua presenza salvifica. Dio abita le spine del roveto, come inabita i limiti e le miserie del suo popolo. Il fuoco che non si consuma rappresenta il segno di un amore indistruttibile, così come la sua parola non decreta un fallimento, ma propone una via di uscita dalla schiavitù» (8). Nell’AT Israele sperimenta tutt’altro che il motore immobile, il popolo sperimenta una meravigliosa “persecuzione” della fedeltà amorevole di Dio che, come dice letteralmente il verbo radap, insegue il pio israelita e gli sarà per sempre compagno (cf. Sal 23,6).
Sul versante contenutistico generale, il testo si assume la sfida di mostrare che il Dio biblico non è solo il Dio della misericordia, ma anche il Dio della tenerezza. Una delle preoccupazioni fondamentali degli autori è «mostrare la ricchezza specifica del concetto della tenerezza di Dio» giacché «riferirsi alla “tenerezza” è far riferimento al cuore stesso di Dio-Trinità-di-Amore e al suo chinarsi verso il mondo». (12).



Gli Aa. spiegano le particolarità lessicali della tenerezza mostrando le sfumature che intercorrono tra i due termini hesed e rhm: «Mentre il termine hesed e il corrispondente greco éleos indicano una disponibilità all’amore, in qualche modo voluta, il gruppo lessicale rhm e hnn e la terminologia greca corrispondente splanchnízomai/splánchna rimandano piuttosto a un sentire spontaneo, un commuoversi istintivo» (30). Per la precisione, raham rimanda a un sentimento localizzato nella parte più profonda della persona, le viscere e l’utero materno.
Come accennato nella premessa, quest’impegno biblico ha delle importanti risonanze teologiche perché tenta di andare oltre una fredda visione di un dio-deista artificialmente metafisico, lontano e distaccato che non permette alcuna possibilità per integrare la dimensione emotiva e sentimentale così importante nell’esperienza umana di Dio. Ma proprio per questo suo impegno di superamento della separatezza solitaria del divino, questa teologia, per reazione, risponde alle sfide di una «spiritualità sdolcinata, vuota del contenuto reale della “forte tenerezza” e della “tenera fortezza” di Dio, fino a confondere “tenerezza” con “tenerume”, dando di Dio un’immagine impoverita o ridotta a misura umana» (13).


Sulla scia di Heribert Mühlen, gli Aa. mostrano che «una teo-logia che voglia essere fedele alla rivelazione suppone il superamento di una concettualizzazione di Dio in senso platonico-aristotelico come Ente supremo al di sopra della totalità degli esseri e del cosmo» (156). La visione di Mühlen può essere riassunta in due cardini concettuali:
1) l'immutabilità di Dio significa semplicemente la negazione della mutabilità con cui vengono considerate le realtà storiche;
2) la sua immutabilità coincide – secondo la concezione biblica – con la sua fedeltà all’alleanza che, nella venuta del Verbo e nella sua passione e morte, si attua come “definitivo temporalizzarsi dell’amore di Dio” nella storia, coniugando il massimo dell’unità con il più alto grado di differenziazione tra il Padre e il Figlio nella co-essenzialità dello Spirito.
La riflessione giunge a mettere in luce una distinzione obbligatoria tra l’in-esse di Dio, come Assoluto sussistente in sé e per sé e tra l’esse-ad di Dio come relazionalità che liberamente crea e si dispiega al di fuori di sé, ponendosi in dialogo con le sue creature.
Questa distinzione convergente si manifesta nell’eloquente parola della croce: «Nel Crocifisso, l’opposizione tra immutabilità e mutabilità divina è superata, perché ciò che si compie in lui è un evento di amore assoluto, accogliente, donante, condividente. In Cristo, il “tutto” e il “per sempre” si concilia con il “qui” e “ora”, senza che l’uno si opponga all’altro».
Risvolti antropologici della tenerezza
Riscoprire la teologia della tenerezza nel suo riferimento e fondamento divino aiuta a riscattare anche l’uomo. «Ogni persona è un essere di tenerezza, fin nelle fibre più profonde del suo animo, e ne porta l’attesa. Il motivo è che l’uomo e la donna sono creati a immagine e somiglianza di Dio, Infinita-Tenerezza: sono un suo riflesso storico. Il recupero della categoria di “tenerezza”, come istanza nativa dell’io, suppone la riscoperta di Dio come di un Dio di tenerezza amante, origine della nostra identità e della nostra più alta realizzazione» (18). Questa tenerezza non solo si riversa sull’uomo, ma anche lo trasforma. In virtù della misericordia di Dio, l’uomo è chiamato a coltivare la misericordia. Nelle parole di Paolo, siamo chiamati ad avere tra di noi «sentimenti di tenerezza e di compassione» (splánchna kai oiktirmói), realizzando la una profonda comunione spirituale (Fil 2,1).
La Chiesa si manifesta come spazio della tenerezza di Dio. Per usare la terminologia di Balthasar, «la Chiesa – in quanto generata dall’amore estremo di Dio per il mondo – è essa stessa amore. Ed essa deve essere ciò che è: la sua essenza è al tempo stesso il suo unico comandamento (Gv 15,12)».




Photo: fra Pasquale Cianci