L’emarginato esistenziale è colui che si porta dentro un’immagine frantumata di se stesso. È una persona che vede una frattura nella propria esistenza e si guarda dentro e fuori per trovare un perché. Queste immagini frantumate possono essere il risultato di dinamiche complesse in cui ci sentiamo – o ci siamo sentiti – non amati oppure amati solo per qualcosa che facciamo e non per quello che siamo in noi stessi. Percepiamo realmente l’amore quando lo riceviamo a motivo del nostro essere, mentre scivoliamo verso la marginalizzazione quando sentiamo di non essere amati – e pertanto amabili – per quello che siamo… semplicemente.
Amare una persona non significa soltanto tenderle una mano per aiutarla. Jean Vanier, fondatore dell’Arche riflette sulle dinamiche dell’amore nel suo libro La paura di amare edito dalla San Paolo. L’uomo che ha dedicato la vita all’accoglienza e alla cura delle persone con disturbi psichici, osserva che nella «mano tesa» c’è una terribile ambivalenza. «Questo gesto pone le persone in una specie di dilemma insolubile: se accettano l’aiuto è la prova del loro non-valore; se non lo accettano, restano in una solitudine terribile. Ci vogliono un’umiltà e una delicatezza straordinarie per rendere portatrice di speranza questa mano tesa. Attraverso questa mano deve passare la convinzione che dice: «È vero che sei malato, e che non stai bene. È vero che hai rubato, che sei un poveraccio oggi… Ma io ho fiducia. Tu sei capace di cose belle”».
Vanier nota l’ambivalenza dell’amore che è delicato ed assillante allo stesso tempo. L’amore accoglie, ma nella sua accoglienza non si arrende allo status quo. L’amore è creativo, e quindi porta un’evoluzione, una crescita. «L’amore ha qualcosa di assillante, ma nel senso buono; come una madre è assillata dal suo bambino, continuamente attirata da lui». L’impegno di presenza dell’amore è quello di «aiutare ogni persona a trovare il proprio spazio e nello stesso tempo rispettare questo spazio». Amare, specifica Vanier, «non è dare la mano a qualcuno quando si cammina per la strada, non è accarezzare. È aiutare la persona a diventare più libera, a essere se stessa, a scoprire la propria bellezza, a scoprire che è una fonte di vita».



Dare non è l’unico gesto d’amore perché a volte si dona troppo, si dona senza criterio e discernimento e, a ben vedere, «si può uccidere dando; si crede di amare e si crea, di fatto, uno stato di dipendenza che porta alla frustrazione e all’odio, o si mette in gioco tutto un mondo di sessualità o di gelosia che l’altro non sa gestire. Il solo vero dono è la rivelazione all’altro delle sue qualità positive, che gli danno fiducia in se stesso, e che gli provano che è capace di fare qualcosa di bello».
Si dice spesso che l’amore è ciò che tutto il mondo cerca. Ma è sempre vero? Vanier, dalla sua esperienza risponde: «È vero e non è vero. Si può avere una tale paura di essere amati da crearsi attorno un mondo di barriere, perché l’amore è una realtà troppo pericolosa e rende vulnerabili».
A ciò si aggiunge la paura dell’impegno. A volte è facile amare una tantum, dare qualcosa e andare avanti. Ma un dono che rimane, che ci fa rimanere nello stato del dono ci terrorizza. Ecco perché l’amore deve essere radicato in Gesù. «Gesù ci dà la certezza che esiste una potenza d’amore molto più forte del nostro amore e che non siamo noi a creare questo mondo di comunione al quale aspiriamo» (28). L’impegno di amore ci rende vulnerabili, l’affidamento all’Amato ci rende realisti: «Non sta a me salvare il mondo; esisto semplicemente per fare ciò che sono chiamato a fare nella mia famiglia, nella mia comunità, nel mio lavoro».