C'è una grande differenza tra pretendere ed esigere. Se l'amore non può essere pretenzioso, ovvero pretendere a priori dall'altro ciò che ci interessa, esso non può che essere esigente, interessarsi dell'altro e per l'altro, affinché l'altro si realizzi, diventi realmente ciò che è ancora in potenza... D'altronde, l'esigenza è anche la logica dell'amore di Dio nei nostri confronti... Ecco a voi un estratto dall'amato libro Alla presenza di Dio. Per una spiritualità incarnata
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L’amore, per Gesù, non solo riassume l’Antico Testamento, ma costituisce il nuovo comandamento del Nuovo. Se pensiamo bene, il comandamento dell’amore è la parafrasi della nostra vocazione alla theōsis, alla divinizzazione. Amando, facciamo spazio all’amore di Dio in noi, all’effusione e al riversamento dello Spirito Santo (cf. Rm 5,5) che è l’Amore del Padre e del Figlio ed entriamo per partecipazione nella vita stessa di Dio. Da qui l’importanza di superare gli ab-usi dell’amore, per vivere le esigenze concrete e incarnate dell’amore deiforme che ci trasforma, perché dove è vero amore, lì c’è Dio, lì c’è il miracolo.
Nella Trinità – ci insegna François Varillon – amore e giustizia vanno mano nella mano. Giustizia perché ogni ipostasi vuole che le altre siano. Amore perché ogni Persona si svuota – vive la kenosi – per far spazio all’altra[1]. La giustizia qui è un altro nome del rispetto, del riguardo, dello sguardo che ritorna sull’altro con premura e attenzione, senza fare violenza. Rispettare l’altro è amare il fatto che egli sia nella sua alterità. È ospitare l’altro (come vedremo più avanti in questo capitolo). Per ora dedichiamoci a considerare l’intrecciarsi, nel cristianesimo, tra l’amore orizzontale e l’amore verticale.
Il comandamento di amare il prossimo, che nell’Antico Testamento poteva apparire come secondario di fronte al comandamento di amare Dio, viene spostato da Gesù «addirittura in primo piano, ma in modo tale che la sua misura diviene lo stesso amore del Dio fatto uomo: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati” (Gv 15,12)»[2]. È veramente da capogiro la pretesa della qualità e della natura dell’amore avanzata da Gesù: «L’amore che nel Nuovo Patto viene richiesto all’uomo ha la sua misura non nella limitatezza della natura umana, ma nel dono di grazia dell’amore divino, comunicatoci e riversato in noi, un amore che apre al di là di sé la creatura in sé limitata, la apre alla partecipazione alla sconfinatezza della vita divina»[3].
Con questo stile di Gesù di esigere l’amore, si apre il grande capitolo delle vere esigenze dell’amore. Si sfata il mito dell’amore come smidollata e incondizionata accettazione dell’altro così come è tout-court. È diffusissima l’opinione che l’amore è vero quando non pretende, quando accetta l’altro così com’è. Lo sentiamo in tv, negli aforismi romantici e nell’opinione diffusa, almeno a parole. Ma è vero? È sostenibile? Se è vero che l’amore non è pretesa arbitraria, non è obbligare l’altro a darmi ciò che non può e non deve, è vero anche che l’amore autentico ha delle esigenze in the name of love.
Esigenza: questa parola che ho ripetuto intenzionalmente già varie volte merita di essere esaminata. Essa proviene dal latino (e prima ancora dal greco) exigere e consta da ex (fuori) e agere (tirare, spingere, muovere). È tirar fuori ciò che c’è dentro, è una specie di educazione (a sua volta ex-ducere), perché l’amore educa e all’amore si educa.
Spingendoci oltre l’aspetto prettamente etimologico si può evidenziare che l’elemento sostanziale consiste nel fatto che l’amore non ama al condizionale ma ama l’altro per se stesso. Amare l’altro per sé, non è però soccombere alla staticità presente dell’essere amato, ma è scorgere in lui le potenzialità ancora non realizzate, i sogni ancora non incarnati e sollecitare con amore e premura la loro realizzazione e incarnazione. L’amore pone il soggetto amato di fronte a possibilità personali non ancora avverate e che la persona amata nella sua concretezza cela in sé.
L’amore che non esige niente, è indifferenza. A ragione Gabriel Marcel ricordava che se non esigo da te ti privo di quello che puoi essere. Siamo messi gli uni di fronte agli altri – come Adamo ed Eva (cf. Gen 2) – per essere di aiuto contro noi stessi, contro il baratro di pigrizia ontologica che ci ingiunge di vivacchiare piuttosto che vivere, di accontentarci invece di essere realmente felici. In realtà, chi si accontenta non gode, si perde il più bello, il mosaico di una vita vissuta in abbondanza.
Quello che puoi essere è già parte di te, anche se non è ancora concretizzato. Amarti significa amare anche quella parte di te che deve nascere, quella vita che deve prendere vita. L’amore non si ferma all’essere di fatto, ma dischiude un «poter-essere»[4]. L’amore intuisce e schiude le possibilità di valore nel “tu” amato. Spetta poi all’inventiva dell’amore di far sì che questa maieutica non sia violenza e non si cristallizzi come condizione sine qua non dell’amore, ma che divenga sua vera espressione. Amare, dopo tutto, è aiutare l’altro a diventare – per così dire – la versione migliore di se stesso, a partorire se stesso. Qui non c’è nessuna strada a senso unico. Anche chi aiuta l’altro amandolo, ha bisogno a sua volta di essere aiutato a tirare fuori il suo canto migliore, a non abortire la propria bellezza immanente.
Una cosa è certa, l’amore di Dio nei nostri confronti segue la logica dell’esigenza. Dio è ambizioso, per noi! Per questo motivo «non commisura il suo comandamento principale all’incapacità dell’uomo. Giacché egli sa che l’amore sopporta tutto, tranne una cosa: che gli si pongano dei limiti. Esso vive di movimento; se lo si frena, intristisce e muore. Esso ha origine da Dio, e Dio è eterna vita senza limiti. Un amore che non restasse vivo, aperto al di più e all’ulteriore, non sarebbe affatto amore. Esso può respirare solo nell’infinità dell’amato e nel possibile superamento di se stesso»[5].




[1] Cf. F. Varillon, Vivre le christianisme. L’humilité de Dieu. La souffrance de Dieu, Bayard, Paris 2002, 84.
[2] H.U. von Balthasar, Gli stati di vita del cristiano, 22.
[3] Ibid., 47.
[4] Cf. V.E. Frankl, Dio nell’inconscio. Psicoterapia e religione, Queriniana, Brescia 20025, 39.
[5] H.U. von Balthasar, Gli stati di vita del cristiano, 23.