abraham bloemaert parable of the wheat and the tares

Il nostro problema come moderni è l’anemia della gioia. Abbiamo scoperto tanti modi per procurarci il piacere, ma ci sfugge terribilmente il segreto della gioia. Il nostro male, non è principalmente la cattiveria, ma la tristezza. Nel ritiro predicato davanti a papa Giovanni Paolo II, Christoph (Card.) Schönborn mostra che questo male vizia sottilmente anche la vita comunitaria della Chiesa: «La profonda crisi nella Chiesa mi sembra consistere nel fatto che noi non osiamo più credere al bene che Dio opera per coloro che lo amano. Questa pochezza di fede spirituale-religiosa veniva chiamata, nella tradizione dei maestri di vita cristiani, acedia, tedio religioso».
Il facile transito dalla tristezza alla cattiveria mostra quanto siano legate la vita psichica e la vita spirituale. I maestri antichi della fede cristiana, i padri del deserto, avevano molto da insegnare su questo tema. Il libro dell’abbate benedettino di Saint-Wandrile, dom Jean-Charles Nault, edito per la San Paolo con il titolo Il demonio meridiano. L’accidia, un’insidiasconosciuta del nostro tempo, è un’attualissima riconsiderazione del male oscuro noto come l’accidia.
Di questo libro consigliatissimo, tireremo fuori due riflessioni: la prima, considera la riflessione storica sul vizio dell’accidia da Evagrio a san Tommaso d’Aquino; la seconda, esaminerà l’attualità (ahinoi) di questo vizio nella vita di oggi.
La metamorfosi di un demonio: da Evagrio a Tommaso
La tradizione spirituale ha identificato proprio nell’accidia il demonio meridiano, tanto temuto da coloro che attraversano la “crisi di mezza età”. Ai nostri giorni, la parola sembra dimenticata, ma il fenomeno dell’accidia è attualissimo.
Perché è identificata con il demonio meridiano? Abitualmente, il demonio è associato alla notte e alle tenebre e non al pieno giorno. Ma il carattere inatteso dell’accidia, che attacca nel pieno delle risorse e in pieno giorno, ne fa un male particolarmente temibile e letale. Proprio quando tutto è alla luce del sole, a mezzogiorno, l’accidia viene a gettare le sue ombre e a stendere un contrasto temibile.
La prima riflessione sistematica sull’accidia la dobbiamo a Evagrio Pontico e la sua dottrina degli otto spiriti cattivi. Ora, la dottrina degli otto pensieri cattivi ha origine dal capitolo 7 del libro del Deuteronomio. Il capitolo porta i nomi dei popoli contro cui Israele ha dovuto combattere per entrare nella terra promessa. Queste nazioni, nella lettura allegorica della Scrittura, sono diventati simboli dei vizi che l’anima deve combattere per arrivare all’unione definitiva con Dio. La peggiore di queste nazioni, per i maestri spirituali, è l’Egitto che simboleggia l’orgoglio. Gli altri sette nemici sono: la gola, la lussuria o fornicazione, l’avarizia o attrattiva del lucro, la tristezza, la collera, l’accidia e la vanagloria.

Evagrio parte dai cattivi pensieri più carnali (gola e lussuria) per arrivare ai pensieri più spirituali (vanagloria e orgoglio). I pensieri sono legati l’uno all’altro: la gola inclina alla lussuria, la quale ha bisogno di denaro per esercitarsi, da cui deriva l’attrattiva del lucro, ma se non si hanno soldi si cade nella tristezza, poi nella collera poi nell’accidia.
Questi pensieri (logismoi) hanno essenzialmente una duplice origine che corrisponde alla duplice natura dell’uomo, carnale e spirituale. Essi provengono dalle due passioni dell’anima: quella concupiscibile e quella irascibile. Queste due assalgono e offuscano la terza parte, l’intelletto, la cui funzione principale è conoscere Dio. Ciò che è temibile dell’accidia è che essa si genera dalle tre parti contemporaneamente. Esso è un pensiero complesso, immerso nelle nostre facoltà passionali.
È interessante l’etimologia della parola. Acedia in latino, viene a sua volta da akedía in greco e voleva dire «mancanza di cura». Essa designava il fatto di non seppellire i propri morti. Proiettata verso la dimensione spirituale, essa implica la mancanza di cura verso la propria vita, verso il proprio ben-essere, la propria salvezza.
I padri del deserto, essendo monaci, la collegano all’insofferenza verso la cella che è per il monaco la porta del cielo. Essa è un indizio di instabilità interiore che si manifesta in un irrequieto bisogno di muoversi e cambiare. Evagrio presenta l’accidioso come un girovago, come uno che fugge il combattimento spirituale. La pigrizia dell’anima si trasmuta in un attivismo del corpo, d’altronde, gli opposti si toccano sempre.
I rimedi dell’accidia per Evagrio sono cinque: le lacrime; la preghiera e il lavoro; il metodo antirretico o di contraddizione; la meditazione della morte e in ultimo la perseveranza.
Cassiano trasformerà l’accidia in pigrizia e questo influenzerà anche san Benedetto. Gregorio Magno invece unisce l’accidia alla tristezza. Egli mette inoltre l’orgoglio fuori dalla lista perché è padre di tutti i vizi. E per arrivare a sette vizi, introduce l’invidia.
San Tommaso d’Aquino, che offre una ricca riflessione sulla convergenza tra vita spirituale e vita morale fa convergere i vari contributi definendo l’accidia come la tristezza del bene divino (acedia est tristitia de bono spirituali divino). Essa è il primo peccato contro la gioia che nasce dalla carità, un peccato contro il gaudium caritate.
L’uomo, per Tommaso, è stato creato per la felicità. La prima esperienza che l’uomo fa della felicità è quella del piacere, ed è proprio sulla base di questa verità che san Tommaso riflette sulle passioni: sono le prime esperienze della felicità. Fra tutte le passioni, quella fondamentale è l’amore. L’Aquinate ci sorprende per il suo ottimismo antropologico e sostiene che è un certo amore (ex aliquo amore) che ci muove, anche quando facciamo il male. In tal caso, il male lo guardiamo sotto una certa angolatura di bene, seppure illusoria. Se non lo considerassimo bene sotto qualche prospettiva (sia essa contorta) non lo faremmo.
Ma se è vero che agiamo solo per amore, come avviene allora che l’uomo opti per il male? E come può succedere che l’uomo possa essere preso da tristezza di fronte a Dio, il Sommo Bene?
Tommaso risponde: l’uomo è capace di essere preso dalla tristezza di fronte a Dio perché per Dio deve rinunciare ad altri beni che sono carnali, temporali, limitati, apparenti, ma che nella bilancia della sua valutazione pesano più del bene divino, il quale può sembrare molto meno concreto dell’uomo o dell’altro bene, godibile immediatamente (cf. De malo q. 11 a. 1 e 2). È qui che subentra l’accidia. Essa si frappone nel rapporto d’amicizia tra noi e Dio, un rapporto che deve essere la tua perfetta letizia, ma che – a causa di questo vizio – diventa arido, triste e tiepido.
Qualcuno potrebbe ancora chiedersi, in che senso l’accidia è un vizio attuale? In che senso – come sostiene Nault, essa è un’insidia sconosciuta del nostro tempo?

A questa domanda dedicheremo la seconda parte di questa rilettura del libro di Nault, Il demonio meridiano