L’elezione a pontefice di Joseph Ratzinger ha reso noto a tutti il volto di un teologo già molto noto agli addetti della teologia. Per questi, la notorietà di Joseph Ratzinger non è neppure legata al ruolo di prefetto della congregazione per la dottrina della fede che ha ricoperto lungo quasi tutto il pontificato di Giovanni Paolo II. Ratzinger era già da prima un volto noto e stimato dell’universo teologico per i suoi vari contributi che mettono insieme scienza teologica, coscienza ecclesiale, sensibilità umana e senso spirituale.
Introduzione al cristianesimo è probabilmente il libro più noto scritto dal giovane teologo quasi cinquant’anni fa (nel 1968). La fortuna e l’attualità del libro è testimoniata dalle traduzioni in varie lingue (è tradotto anche in arabo!) e dalle numerose riedizioni e ristampe. La traduzione curata dalla Queriniana ha raggiunto nel 2003 ben dodici edizioni.
In quest’opera che raccoglie e approfondisce le lezioni tenute dal teologo bavarese a Tubinga nel semestre estivo del 1967 ad un uditorio variegato di tutte le facoltà, Joseph replica il riuscito tentativo effettuato prima di lui da Karl Adam, con il suo corso L’essenza del cattolicesimo. Dopo circa mezzo secolo, l’impresa di Ratzinger non costituisce una replica di quest’opera magistrale, ma si misura con competenza e sensibilità con le sfide del suo tempo, le sue speranze e le sue inquietudini.
Naturalmente, gli scenari che hanno visto nascere l’opera sono molto cambiati, ma l’approccio poliedrico e la sensibilità antropologica, culturale e teologica che Ratzinger ha magistralmente manifestato nell’opera rimangono attuali ed esemplificative per una teologia che vuole esercitare il duplice ascolto della Rivelazione e dell’uomo.
Tra i ricchissimi aspetti che questa riflessione fatta sulla falsariga del simbolo degli apostoli vorrei evidenziare tre aspetti fondamentali, non tanto per riassumere l’opera, quanto per proporre un sentore presente nell’analisi e nello sviluppo dei vari capitoli di questo ricco volume.
La natura dialettica della fede
Il debutto della riflessione di Ratzinger, che rievoca l’inizio della scarpetta di raso di Paul Claudel con il suo scenario della fede che lotta con la sua dimensione di “fatica di credere”, ci immette subito nella visuale del teologo che vede il cristiano di oggi come «attaccato alla croce – ma la croce non attaccata a nulla, che va fluttuando sull’abisso». Questa situazione di vivere la fede come lotta e come ricerca, e non come una certezza matematica acquisita, rende il credente più empatico verso il fratello non credente. D’altronde neppure il non credente sincero vive la sua non credenza come una certezza assodata, ma come una situazione di ricerca, di interrogazione, di inespresso desiderio di non avere ragione.
La situazione di incertezza diventa uno spazio di dialogo perché impedisce agli interlocutori «di barricarsi completamente in se stessi, portando il credente a rompere il ghiaccio col dubbioso e il dubbioso ad aprirsi al credente» (18).
Il credente – per dirla con Metz - è simul fidelis et infidelis e «chi pretende di sfuggire l’incertezza della fede, dovrà fare i conti con l’incertezza dell’incredulità, la quale, dal canto suo, non potrà mai nemmeno dire con inoppugnabile certezza se la fede non sia realmente la verità» (17). Se vi è una certezza per il credente, è quella dell’affidamento e della prassi che diventa prova concreta dell’affidabilità di Dio.
La natura pratica della fede
«Dio è ‘pratico’; non è un mero corollario teorico a una determinata visione del mondo, un’idea a cui ricorrere per trovare conforto o appiglio o, semplicemente, un concetto che si possa ignorare» (V). Se è vero che la fede si confronta con la dimensione teorica, il suo inveramento passa necessariamente per la dimensione pratica. Il suo contatto con l’eternità ha la sua verifica nell’essere calata nella storia.
Scrive Ratzinger: «La fede cristiana ha realmente qualcosa da spartire col factum: essa è inserita in maniera specifica sul piano della storia, tanto è vero che non a caso storicismo e storia sono nati e cresciuti proprio in un ambiente saturo di fede cristiana» (36).
L’agire della fede, ovvero la sua natura pratica, non è un’immersione sfrenata e soffocante nelle dimensioni del fare. L’equilibrio della fede, infatti, riconosce che «l’uomo in effetti non vive del solo pane del fattibile, ma vive invece da uomo, e, proprio nella configurazione più tipica della sua umanità, vive di parola, di amore, di senso della realtà. Il senso delle cose è davvero il pane di cui l’uomo si sostenta, di cui alimenta il nucleo più centrale della sua umanità» (40).
Proprio quest’ultimo passaggio del libro di Ratzinger ci apre alla terza dimensione che vorrei segnalare come tratto stilistico e orientativo del volume in questione.
La natura dialogica della fede
Il mondo che non trova in sé la sua ragione di essere si apre alla proprio ragione fondante e si trova dinanzi alla sorpresa che è una persona, amore. È questo il messaggio della fede biblica (cf. XIII). La ragione si allarga per includere la dimensione dell’incontro del dialogo giacché «la fede proviene dall’‘udire’, e non dal ‘riflettere’ come la filosofia. La sua essenza non consiste nell’essere un’elucubrazione del pensabile, che a conclusione tirata mi vien messa a disposizione come risultato del mio pensiero; è invece sua peculiare caratteristica quella di provenire dall’aver udito, di essere la ricezione di qualcosa che io di mia iniziativa non ho pensato, sicché in sostanza, nella fede, il pensiero è sempre un ripensamento di quanto si è udito e ricevuto in precedenza» (56-57).

L’uomo, nell’esperienza biblica e cristiana, allaccia il rapporto con Dio non tanto a partire dalla proprio ricerca solitaria quanto in base alla «struttura dialogica» di un incontro che avviene con Dio e con gli altri. In questo senso, Ratzinger afferma che la fede è «essenzialmente preordinata al ‘tu’ e al ‘noi’, e solo sul cammino segnato da questo duplice addentellato collega l’uomo a Dio». Questa natura dell’esperienza religiosa manifesta la modalità tipica della fede biblica che manifesta come Dio «vuole giungere all’uomo solo tramite l’uomo; egli non cerca l’uomo fuorché nella sua fraternità con gli altri uomini».



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