Una riflessione tra psicologia e spiritualità sul «sale della vita cristiana»
Robert Cheaib



«La gioia è la vera occupazione», così scriveva C.S. Lewis, il letterato «sorpreso dalla gioia» e convertitosi da essa a Cristo. E quanto è vero! La gioia è un movente comune che accomuna tutti gli esseri umani. Agostino invita a riflettere: se chiedi a due ragazzi se vogliono essere soldati, forse uno ti dirà sì, l’altro no. Ma se chiedi a qualsiasi essere umano se vuole essere felice, stai sicuro, ti dirà di sì!
Pur essendo un’aspirazione comune, pare però che la mensa della nostra società sia parca di gioia. È come se non avessimo lo strumentario innato per essere felici. Cerchiamo quell’acqua limpida in pozzi inquinati e forse con la sbadataggine inquiniamo i nostri pozzi gioiosi. Amedeo Cencini si dedica nel libretto La gioia. Sale della vita cristiana a raccogliere alcuni elementi per raddrizzare il tiro della gioia.
Il libretto è suddiviso fondamentalmente in due parti. La prima è dedicata alle componenti psicologiche della gioia, mentre la seconda si concentra sui suoi dinamismi psicologici.
La gioia – si sa – non si riduce all’esteriorità burlona e gagliarda. Essa è soprattutto gioia del cuore e della mente, ovvero, di tutto l’uomo. È una realtà che attraversa e permea lo spirito quale «sintesi dell’umano». Essa è anche – e inscindibilmente – relazione. La gioia dell’umano non è un godimento solitario ripiegato su se stesso, ma nasce dalla comunione, dalla relazione (14). La gioia, in prospettiva religiosa, è entrare nella gioia di Dio. Raccontano, infatti, i rabbini in un’immagine espressiva che «la pupilla di Dio, dinanzi alla bellezza del mondo e specialmente della creatura umana, si è dilatata, fino a far fluire una lacrima di estrema gioia e piacere divini per la sua creazione». Dio –come intuì la santa cilena Teresa de los Andes è «gioia infinita». È gioia e contagia gioia.

La gioia: mistica e metro dell’umano
L’attributo della bellezza di Dio va coniugato con la sua gioia. Anche la gioia è una dimensione estatica ed estetica. A ragione Cencini afferma che «la gioia è trascendente, provare gioia è operazione mistica» (22). Se si osservano le dinamiche della gioia ci si accorge che ogni volta che gioiamo in modo autentico, siamo al di là di noi stessi. Imparare a godere una vera gioia implica quindi l’apprendistato dell’arte di trascendersi e diventare «capacità» di gioia.



La gioia, inoltre, ha un valore «diagnostico» perché «rivela quel che c’è nel cuore» e svela dove «abita» il nostro cuore. Scrive Cencini: «Se vuoi sapere chi sei, cosa ti porti in cuore, cosa è diventato importante per te, dove abita per te il senso della vita… interrogati sulle tue gioie passate e presenti, osserva quando sei contento, chiediti cosa deve capitare perché tu sia felice, o come sia la tua sensibilità (psicologica, ma anche morale) al riguardo» (28-29).

Pre-diletti
Abbiamo accennato alla dimensione relazionale della gioia. Partendo dalle parole del Padre a Gesù nel battesimo del Giordano, Cencini osserva che «gioia è relazione, è sentire queste parole, e sentirle ognuno come rivolte a sé, come se egli fosse l’unico figlio del Padre». E ancora: «Gioia è andare all’essenziale, alla radice dell’io, per scoprire alle sue origini una tenerezza infinita e increata, anzi una benedizione che lo pervade tutto e che nulla potrà offuscare: siamo stati portati in una culla eterna, nel pensiero e nell’amore di Dio; siamo figli di un dono, che viene da prima di noi e va oltre noi» (32).
La gioia che scaturisce dall’amore viene dalla certezza di essere pre-diletti, ossia amati prima ancora di averlo meritato. Mi ha amato e ha dato se stesso per me, ancor prima di esserne degno, ancor prima di esserci. È il fondamento della gioia teologale. È gioire nel riconoscersi «candidati al paradiso», aventi valore per lo sguardo d’amore eterno posato su di noi. «Il cristiano è esattamente colui che ha imparato a godere di questo sguardo poiché si ritrova in quegli occhi, o è colui che trova la sua gioia nello stare – da solo – di fronte a Dio e nel lasciarsi da lui guardare, e cerca spesso tale sguardo come ciò che dà un senso alla vita» (41).

Il realismo della gioia
La gioia nasce dalla coerenza, dall’ imparare ad amare quel che si fa perché «chi fa il bene per forza, alla fine lo fa male». Tommaso d’Aquino insegna che l’uomo virtuoso è colui che sperimenta il gusto e il piacere dell’azione virtuosa e «avverte la libertà interiore di fare qualcosa che l’attira sempre più, perché in quel gesto, in ultima analisi, ha scoperto e scopre sempre più la propria identità e verità» (74). Anzi, come insegna Dostoevskij: «il segreto di una vita riuscita è impegnarsi ad agire per ciò che si ama e amare ciò per cui ci s’impegna» (75).
Il censimento, quel continuo ripiegarsi sui propri successi, è nemico della gioia. La gioia risiede piuttosto nel paolino dimenticare quello che si ha dietro e protendersi verso quel che si ha davanti.
La gioia di un cuore puro aperto al paradiso che sono gli altri (come ribaltava Suor Emmanuele la famosa espressione sartriana) è una gioia che dimora anche nel fondo del calice del dolore. A volte è impercettibile, quando tutto sembra buio, ma è un sole che resiste dietro le nuvole nere. Resiste nella forma di una pace che nasce dall’affidabilità dell’Altro. Questa pace interiore trova la sua sorgente nell’amore. Essa «consiste in una gioia inalterabile dell’anima che è in Dio. La chiamiamo pace del cuore. È l’inizio e un assaggio della pace dei santi che sono nella patria, della pace e dell’eternità» (121).