La sfida della riconciliazione nella parabola del figlio prodigo

Robert Cheaib

«Solo chi ama spreca. E Dio con l’uomo… sciala!», questa è una delle conclusioni a cui giunge la biblista Rosalba Manes nella sua lettura della parabola del «figlio prodigo» nel suo ultimo libro Il ritorno. La sfida della riconciliazione nella parabola del figlio prodigo (Edizioni San Paolo). Il vero prodigo che ci viene svelato è il Padre. È prodigo, sprecone, dalle maniche larghe perché non bada a spese e a contabilità, anzi non bada neanche a «sé» e spende più dei soldi e ciò che i soldi non possono comperare: spende dignità, pazienza, attesa, dialogo, condiscendenza… spende se stesso. La parabola del figlio prodigo conosciuta anche come la parabola del Padre misericordioso, può essere benissimo intitolata «la parabola del Padre prodigo» perché è la parabola del Dio dalle mani bucate.
Il respiro e lo stile empatico e coinvolgente che attraversa i dieci capitoli del libro è già preannunciato dalla poesia di Alda Merini che lo apre:
«sono solo malati d’amore, e…
basterebbe poco per farli fiorire
un bacio, il canto di una primavera,
un fiore mandato al momento giusto,
un’ala di Dio ricordata in una lettera, una lettera,
un abbandono, un momento che duri un’eternità.
Perché malgrado l’uomo lo neghi non sa che
Dio l’ha destinato ad essere eterno».
La parabola di Luca 15 è una lezione multiforme che ci pone davanti al difficile impegno dell’«apprendistato dell’alterità, che rivela all’uomo la verità di sé». Essa ci presenta «la fatica dell’uomo nell’instaurare relazioni autentiche e il suo difficile passaggio da un regime autarchico, dove regna la legge del commercio, a una vita comunionale, dove regna la legge della gratuità» (8).
La parabola ci presenta una radiografia del cuore umano spesso pigro e imbranato nell’accogliere il dono gratuito e incondizionato d’amore. Siamo, infatti, davanti a un figlio minore che reclama i doni del padre e un figlio maggiore che pretende riconoscimenti, mentre il padre non pretende niente, ma dona gratuitamente senza attendere nulla in cambio.
Nella parabola si scoprono due cuori: quello dell’uomo «ferito dall’egoismo e profondamente assetato d’amore» e il cuore di Dio «fedele alla sua natura di Padre e sempre veglia sull’uomo, ne accoglie il ritorno e offre sempre nuove opportunità di rilancio della propria storia personale e dell’amicizia con Lui» (78).
Dal dipanarsi del libro trapelano due scelte interpretative feconde.

Leggere la Scrittura alla luce della Scrittura

La Manes applica con semplicità e frutto il principio esegetico antico: Scriptura sui ipsius interpres (la Scrittura è interprete di se stessa). I vari passi della Scrittura vengono illuminati e acquistano una polifonia e un’armonia di voci grazie al confronto con altri testi simili nella Bibbia. L’applicazione di questo metodo antico conduce spesso a una sorpresa: dando voce, si scopre la Parola.
Questo principio è stato illustrato da un’immagine suggestiva di san Gregorio il Grande nelle sue omelie sul profeta Ezechiele. Il Papa discepolo di san Benedetto scrive: «Non posso forse paragonare una parola delle Scritture sacre a una pietra focaia? Nella mano che la tiene, questa pietra è fredda; ma quando viene colpita, essa fa nascere le scintille; ed emette un fuoco che presto diventa una fiamma».

È proprio questo quel che accade quando la parola viene incendiata da altre parole della Scrittura. Le parole si accendono a vicenda e nutrono la fiamma della fede e di quell’incontro atteso ma forse non sperato in cuori «malati d’amore».

Leggersi con potenza nella Scrittura
La seconda scelta interpretativa è quella narrativa che possiamo qualificare anche come «contestualizzata e contestualizzante».

È contestualizzata perché ci permette tramite la lettura della pericope nel suo con-testo originario di coglierne aspetti non immediatamente evincibili dal testo. L’autrice mostra come la parabola in questione sia il culmine di tre parabole in cui si annuncia il manifestarsi del «ritorno» e dell’accoglienza gioiosa da parte di Dio. La lettura è contestualizzata perché offre con stile vari spunti culturali e diacronici che permettono al lettore contemporaneo di familiarizzare meglio con la pagina evangelica e di vederne l’attualità guardandola nel suo tempo.
È anche e soprattutto contestualizzante perché il cammino tracciata dalla Manes porta sempre il lettore all’interno del quadro della parabola. Durante la lettura si è attraversati dai sentimenti e dalla psicologia dei vari protagonisti del racconto. Già il debutto del primo capitolo lo afferma: «È la storia di quel gemello in cui ognuno rivede i tratti del proprio volto: il figlio prodigo. La sua storia è la storia di tutto, per questo ha davvero un sapore di eternità e non smetterà mai di sedurre esperti biblisti e cuori semplici in cerca del senso della propria vita» (11). Ed è questa la corretta lettura della Scrittura: leggersi dentro questa parola che è «vicina a te; è sulla tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica» (Dt 30,14; cf. Rm 10,8).
Il contesto fondamentale della parabola, però, è l’evento Gesù e la sua opera volta a guarirci dalle immagini sbagliate del Padre che falsano inevitabilmente la relazione con lui. «Le parole di Gesù pronunciate nella parabola di Luca sono un “bacio” di Dio all’umanità di tutti i tempi, memoria del palpito del cuore del Padre, uno squarcio sull’eternità che è il destino dell’uomo» (14).
Gesù usa la trappola della parola che scatta «nel momento in cui il giudizio formulato in un terreno neutro, tocca la sfera della propria situazione personale nella quale la dinamica della parola invita a tornare. È lì che il giudice si trova giudicato dal suo stesso giudizio e viene smascherato» (21). L’invito all’uditore è quello di diventare attore-protagonista, che si lasci attraversare dal pathos e dalla com-passione di Dio per trovare il proprio luogo nell’altrove della parabola. Distanziato dai proprio pre-giudizi e pre-concetti, grazie alla terra-di-nessuno della parabola, l’uditore (e il lettore) può emettere un giudizio libero e giudizioso, accogliendo l’alterità divina e il suo agire sorprendete (23).

Un amore al superlativo

È difficile ripercorrere tutta la parabola nell’arco breve di questa recensione, ma vorrei sottolineare un momento che la Manes presenta con grande eleganza. È il momento in cui il Padre attende come una sentinella l’alba del ritorno del figlio. Quando i lineamenti di questi balenano all’orizzonte, il testo di Luca impiega con finezza letteraria cinque verbi per descrivere la reazione del Padre: «vedere», «avere compassione», «correre incontro», «gettarsi al collo», «abbracciare». L’evangelista raffigura il volto paternamente materno e maternamente paterno di questo genitore che incarna «la pienezza dell’amore oblativo, il superlativo di un amore che è del tutto e infinitamente gratuito».
Proseguendo il commento Rosalba Manes scrive: «Ciò che del ritorno in scena del padre l’evangelista sottolinea anzitutto è la sua vista. Questo figlio è lontano, eppure il padre lo vede. E come è possibile? La sua attesa del ritorno del figlio dev’essere stata tale da tenerlo inchiodato tutto il tempo all’uscio di casa, con la speranza di vederlo comparire prima o poi all’orizzonte. Basta solo un’ombra o un pezzettino di sagoma e il padre lo riconosce. E sappiamo che si riconosce solo chi si ama!» (53).

Un finale aperto

La parabola del figlio (o del Padre) prodigo è una terapia di riconciliazione. Il Padre esce due volte per incontrare due figli molto diversi, ma che hanno in comune una (in)comprensione «commerciale» dell’amore e delle relazioni. Entrambi sono dominati dalla logica del dovere, del dovuto (do ut des). La parabola ci mostra che «se esiste un dovere, è solo quello della festa! “Si doveva”: è l’espressione di una necessità divina, di un inesorabile progetto salvifico, di un’abbondante effusione d’amore, della terapia della festa che ricorda all’uomo la sua alta dignità» (75).
Il finale è aperto. Il figlio maggiore è alla porta. Rimane con l’eco delle parole del Padre. Bisogna far festa per tuo fratello. Bisogna fare festa per te. Si è all’uscio della casa… aperta… come è aperto… squarciato… il cuore del Padre visibile dalla fenditura del cuore trafitto di Gesù… Il finale è aperto perché forse lo devo scrivere io, con la mia vita, con la mia riconciliazione con l’Amore.
Lascio l’ultima parola all’autrice: «Quel figlio che deve entrare alla festa siamo noi, lettori attuali della parabola, che stiamo all’uscio, a metà strada tra il dentro e il fuori. Dio ci ricorda che la festa è il nostro destino! Egli ha preparato una festa per noi perché possiamo sentire tutta la gioia di essere i figli suoi, inviati nel mondo come prolungamento del suo abbraccio di riconciliazione e di misericordia, che è per tutti gli uomini. E tu che decidi di fare?» (102).

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