Robert Cheaib



«Non ci sono fatti: solo interpretazioni», questa frase lapidaria di Nietzsche mostra lo scenario burrascoso di una lettura del pensare, del vivere, del parlare e del filosofare sotto il segno del relativo. Questa «ermeneutica relativista» è, a detta di Gianni Vattimo, la koiné che contraddistingue il nostro tempo. Ai nostri giorni, l’ermeneutica si configura spesso come lo spazio della relativizzazione, «uno spazio intellettuale e culturale in cui non si dà verità, perché tutto si riduce a interpretazione». Ma questo non è il senso originale dell’ermeneutica, anzi
questa concezione è agli antipodi del suo senso originario quale «dottrina della verità nell’ambito dell’interpretazione».
Jean Grondin offre in un libro succinto una prima presentazione sintetica del percorso di questa corrente. «L’ermeneutica» di Grondin presentata al lettore italiano nella collana «giornale di teologia» della Queriniana è un prezioso contributo per permettere un primo augenblick essenziale ma ricco.

I tre sensi dell’ermeneutica
Uno sguardo globale, non tanto agli autori che hanno contribuito all’ermeneutica, quanto alle concezioni fondamentali che attraversano questi autori ci fa vedere tre comprensioni o volti della stessa:
- L’ermeneutica nasce per porre delle regole volte a combattere l’arbitrarietà e il soggettivismo nelle discipline che hanno a che fare con l’interpretazione. Nel suo senso classico essa è l’arte di interpretare i testi. Il suo ruolo era fondamentalmente normativo. Vediamo un esempio incipiente dell’ermeneutica (scritturistica) in Agostino che raccoglie delle regole per l’interpretazione nel suo De Doctrina Christiana.
- Ma un secondo concetto di ermeneutica vede la luce con Wilhelm Dilthey (1833-1911) che allarga l’ermeneutica per includere nel suo spettro tutte le scienze umane, diventando una «riflessione metodologica sulla pretesa di verità e sullo statuto scientifico delle scienze umane» (9-10).
- La terza concezione dell’ermeneutica nasce come reazione a questa metodologica dell’ermeneutica. L’ermeneutica diventa «una filosofia universale dell’interpretazione» (10).

L’ermeneutica classica
Come termine, l’ermeneutica vede la luce nel XVII con il teologo di Strasburg Sohann Conrad Dannhauer. L’ermeneutica sacra consisteva in un metodo per interpretare i testi sacri. L’ermeneutica come prassi, però, è molto più antica. Non dimentichiamo il secondo libro dell’Organon di Aristotele consacrato all’enunciato e che è un Perì hermenéias (reso in latino con de interpretatione). Negli ultimi capitoli delle sue Confessiones, Agostino presenta un’ermeneutica dei primi versetti della Genesi. Agostino riassume la dottrina interpretativa classica che ha imparato alla scuola di grandi come Origene o Filone d’Alessandria così: «In tutti i libri sacri si devono distinguere le verità eterne che ci sono inculcate (aeterna), i fatti che vi sono narrati (facta), gli eventi futuri (futura) che vi sono predetti, le azioni che ci si comanda o consiglia di compiere (agenda)».
Ad ogni modo, quest’ermeneutica classica è legata fondamentalmente all’interpretazione di testi scritti, e più particolarmente dei testi sacri. Sarà il XIX secolo ad allargare il ventaglio di competenza dell’ermeneutica.

Un ermeneutica universale delle scienze umane
Schleiermacher attirerà l’attenzione sul fatto che «ogni atto del comprendere è il rovescio di un atto del discorso». In altre parole: ogni discorso si fonda su un pensiero precedente. Per questo motivo, la comprensione del discorso richiede un necessario risalire all’intenzione e al discorso previo che sottostà al discorso. Capisco il discorso dell’altro nella misura in cui so risalire/discendere al sottosuolo del suo discorso. Tale atto avviene con un’interpretazione doppia: quella grammaticale, del discorso; e quella psicologica, che tramite il discorso risale all’essenza dell’anima individuale di chi pronuncia/scrive il discorso.
L’ermeneutica si configura allora come la «dottrina di un’arte del comprendere». Il suo compito ambizioso sarà – come lo descrive Schleiermacher – quello di «comprendere il discorso, prima altrettanto bene, poi ancora meglio dell’autore». Si può comprendere meglio dello stesso autore perché ci si impegna a risalire alla genesi di un discorso.
Quest’ermeneutica, compresa ancora come disciplina filologica, diventerà sempre più un discorso metodologico con Wilhelm Dilthey. L’ermeneutica sarà il metodo per comprendere l’individualità a partire dai suoi segni esteriori. Nelle parole di Dilthey: «Chiamiamo comprensione il processo mediante il quale conosciamo un interiore per mezzo dei segni percepiti dai nostri sensi dall’esterno». Questa comprensione avviene grazie alla «ricreazione» in se stessi dei sentimenti vissuti dall’autore. Più precisamente, l’oggettività dell’ermeneutica si baserà sulla triade del vissuto, dell’espressione e della comprensione.

La svolta esistenziale heideggeriana
La fase successiva sarà la svolta esistenziale dell’ermeneutica ad opera di Martin Heidegger. Con lui l’ermeneutica passerà dall’essere un metodo analitico all’essere una forma di fare filosofia. L’ermeneutica cambierà oggetto, che non sarà più i testi o le scienze interpretative, ma l’esistenza stessa; e cambierà anche vocazione in quanto non si comprenderà più in termini normativi o metodologici, ma come una funzione fenomenologica e «distruttrice» nel senso liberatore del termine. Grazie alla retta ermeneutica, l’esistenza si libererà dalle sue illusioni e dalle interpretazioni sbagliate che la tengono imbavagliata. Distruggendo le catene dell’errore e dell’illusione, la filosofia ermeneutica restituisce l’esistenza a se stessa.
La fatticità è sempre capace di interpretazione; sempre in attesa e nella necessità di interpretazione; ed è vissuta da sempre in seno a una certa interpretazione del suo essere (37). Ebbene, il compito dell’ermeneutica secondo Heidegger è quello di «rendere ciascun Dasein attento al proprio essere, a comunicarglielo, a incalzare l’alienazione di sé che colpisce il Dasein». L’ermeneutica si presenta come una liberazione dall’omologazione dettata dall’opinione pubblica che priva ogni persona dalla sua unica e originale realizzazione. È un invito al Dasein affinché corrisponda alla propria vocazione, a essere ciò che è realmente.
Rudolf Bultmann farà fruttare «l’ermeneutica eretica» di Heidegger nel campo dell’esegesi. Egli applicherà una «comprensione partecipativa» (teilnehmendes Verstehen) che consisterà nel far parte di ciò che si comprende per coglierne la realtà profonda, «la cosa» (Sache).
Hans-Georg Gadamer partirà da Heidegger per rinnovare l’intelligenza del problema di Dilthey. La comprensione del titolo della sua opera «Verità e metodo» getta sufficiente luce per capire il senso della sua impresa. Gadamer capirà che la verità non è soltanto questione di metodo. Il metodo è spesso basato sulla distanza dell’osservatore rispetto al suo oggetto. Ma questo modello di «osservazione a distanza» non è adeguato per le scienze umane. Da Heidegger, Gadamer imparerà che comprendere è sempre un «comprendere se stesso». «L’ermeneutica oltrepassa l’orizzonte di una riflessione sulle scienze umane, per diventare una riflessione filosofica universale sul carattere di linguaggio della nostra esperienza universale del mondo e del mondo stesso» (79).
In un’altra linea, Paul Ricoeur svilupperà l’eredità Heideggeriana mostrando come la comprensione riguardi il mondo che l’opera letteraria mi apre e che mi permette di abitare. Ricoeur offre un’ermeneutica del sé storico di fronte al conflitto delle interpretazioni. Il lavoro interpretativo consisterà nel «decifrare il senso nascosto nel senso manifesto, nel mettere in chiaro i livelli di significato implicati nel significato letterale». Notiamo quindi che Ricoeur riprenderà l’ermeneutica dei testi, anche se – grazie al fondo heideggeriano e bultmanniano del suo progetto filosofico – il suo accento sarà sempre quello di una «ermeneutica dell’ipseità» o «ermeneutica dell’io».
La decostruzione ermeneutica e l’ermeneutica postmoderna
Grondin considera successivamente la fase della decostruzione di cui il pioniere più famoso è sicuramente Jacques Derrida. La «volontà di comprensione» (di Lévinas) per Derrida è una sorta di violenza all’alterità in quanto cerca di com-prenderlo, di possederlo imponendogli la propria visione totalizzante. L’imperativo quindi è quello di interrompere la volontà di comprensione per una retta ermeneutica-manifestazione dell’altro.
Il passaggio finale sviluppato nel breve ma prezioso e limpido libro di Grondin è quello dell’ermeneutica postmoderna, specie i contributi di Richard Rotry e di Gianni Vattimo. Il primo invita la filosofia a rinunciare a una conoscenza che pretende di essere un semplice specchio del reale e a diventare una «teoria della conoscenza» il cui compito è chiarire in che modo la nostra conoscenza si rapporta alla realtà (134). Con il crollo dell’epistemologia, l’ermeneutica viene a insegnarci che si può vivere senza l’idea di verità, intesa nel senso di una corrispondenza al reale, e aprirsi in compenso a una cultura che esalta gli ideali dell’edificazione e della conversazione.
Se l’interpretazione di Rotry va in senso anti-ontologico e nominalista, quella di Vattimo – pur non meno relativista – lo vede orientato a «difendere l’idea di un’ontologia nichilista», è un richiamo ad abbracciare un «nichilismo felice» ed ermeneutico. Una tale ermeneutica dovrebbe sfociare in un’ontologia nichilista: l’essere non è nulla in se stesso, ma è ridotto al nostro linguaggio e alle nostre interpretazioni. L’ermeneutica si presenta così come una risposta alla storia dell’essere che culmina nell’avvento del nichilismo (140).

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Il libro è disponibile sul seguente link: