La delusione del Qohelet come attesa di Cristo
Se un libro deve essere – come dice Franz Kafka - «un pugno che ci martelli sul cranio» e «una piccozza per rompere il mare di ghiaccio che c’è dentro di noi», allora il libro del Qohelet fa sicuramente al caso.
L’effetto non viene attenuato dal fatto di essere parte del canone biblico. Anzi, lo scandalo di quel libro che non ha peli sulla lingua si acuisce con l’idea che nel leggerlo dobbiamo dire e dirci: «è parola di Dio».
Il libro del Qohelet non è uno scritto di pietà con istruzioni per l’uso, ma un libro sapienziale dal grave e profondo respiro. Il suo aroma vero non si rivela a primo acchito, ma soltanto spezzando la crosta dura delle righe e delle espressioni ferendo la parola e lasciandosi ferire da essa.
Nel volume - Qohelet. Il libro più scandaloso e originale dell'Antico Testamneto -  che ripropone al grande pubblico il prezioso libro del 1988 di Gianfranco Ravasi (Cardinale), ci confrontiamo con stile dotto ma delizioso con l’enigma del «libro più originale e “scandaloso” dell’Antico Testamento», partendo dal mistero del suo autore nonché l’enigma del messaggio finale.
Il volume pubblicato da San Paolo Edizioni propone un’interessante introduzione al mondo del Qohelet seguito da una traduzione e da un commento del testo. Come i vari libri di Ravasi, il commento rientra in quella via media che non rinuncia al rigore scientifico ed esegetico a favore della divulgazione, e non tradisce la bellezza dello stile e il fascino della presentazione a favore di una pretesa scientificità.

Un autore poco «ecclesiastico»
Già il nome dell’autore del libro è un enigma. Il suo nome viene dalla radice ebraica qhl che significa radunare, convocare l’assemblea. Per questo le traduzioni greco-latine si sono orientate verso il nome «Ecclesiaste», colui che raduna la qahal. Un nome al quanto insolito e inconseguente con il carattere dell’autore che traspare dallo scritto, un autore che trapela «un evidente fastidio per le grandi masse, abituate agli stereotipi sapienziali».
Oltre alla sua formazione, il contenuto del libro è un enigma interpretativo. Ravasi mostra la svariata e a volte contraddittoria gamma di interpretazioni del messaggio centrale del libro. Da chi vede nel Qohelet il paradigma dello scettico (R. Murphy), del contestatore (A. Maillot), del disperato cinico (J.T. Walsh), passando per chi legge nel libro un invito di rassegnarsi alla insostenibile mediocrità dell’esistenza vanificata dalla morte la quale disorienta ogni equilibrio retributivo (D. Buzy), fino all’interpretazione «sconcertante» di chi vede in esso «un predicatore della gioia» (R. N. Whybray)

Un libro postmoderno
Se il libro della Sapienza con il suo ottimismo antropologico può avvicinarsi alla sensibilità dell'uomo moderno, il Qohelet si configura come libro decisamente postmoderno, deluso e diffidente verso i metaracconti del progresso e del senso che guarda la realtà con uno sguardo crudele e quasi autolesionista.
Il tono del libro è lento, distaccato, disilluso nonostante la tensione sotterranea che le sue proposte e le sue riflessioni nascondono. Con cinismo, il Qohelet, con il suo «niente di nuovo sotto il sole», sembra dirci – con Oscar Wilde - «ciò che il futuro ci riserva è il nostro passato».
Dal punto di vista di una teologia della storia, il Qohelet è l’unico autore biblico che abbandona la visione scritturistica della storia intesa come un progetto divino in progressivo sviluppo lineare e messianico.

… eppure
Il Qohelet non si sofferma sul «problema» Dio in quanto tale, non disturba le orbite celesti se non in quella parte che interferisce con il problema dell’uomo.
Eppure, il libro fa parte del Canone a testimonianza che il terreno degli interrogativi umani, anche quelli amari che non hanno la risposta alla portata di mano, come quello della sofferenza del giusto, sono spazi che – seppure sembrino sussurrare un’amara assenza di Dio e un assordante vuoto – possono in realtà «essere misteriosamente fecondati da Dio».
Ravasi ci ricorda che «la parola “ispirata” di Qohelet è anche da interpretare alla luce della progressività pedagogica della stessa rivelazione divina che, pur avendo una logica di fondo lineare, conosce tappe lente di attuazione, vive in attesa, si sonda lungo soste e percorsi tortuosi. In questo senso si può dire che per il cristiano la parola di Qohelet è come un indice puntato verso la pienezza di Cristo in cui la tensione della ricerca e dell’autore antico testamentario troverà una risposta conclusiva e non evasiva. Dio, infatti, non resterà più nei suoi cieli né parlerà con la mediazione dei segni ambigui ma “si farà voce umana, limite, povertà, fragilità, domanda, ansia, interrogativo a Dio stesso nel Figlio vero uomo” (N. Berdjaev)».
Il Nuovo Testamento apre i sensi delusi del Qohelet – «vanità di vanità, tutto è vanità», «niente di nuovo sotto il sole» – alla novità del senso di colui che ha fatto nuove tutte le cose.
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Robert Cheaib
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