La storia della spiritualità cristiana potrebbe essere vista da tante prospettive. Ogni prospettiva regala ricchezze diverse esattamente grazie alla luce del punto prospettico. Nel suo volume sulla storia della spiritualità cristiana, Christoph Benke sceglie il punto prospettico panoramico ma indicativo della sequela. Già percorrendo l’indice del volume ALLA SEQUELA DI GESÙ. Storia della spiritualità cristiana – reso accessibile per il lettore italiano grazie alla traduzione proposta dalla Queriniana per la Collana “Introduzioni e Trattati” (n. 49) – . Il volume riprende e amplia un’opera di successo dell’autore intitolata Kleine Geschichte der christlichen Spiritualität [Piccola storia della spiritualità cristiana] pubblicato nel 2007.

Spiritualità

Parlare di spiritualità implica un chiarimento del concetto “spirituale”. Quando Paolo intende indicare il distintivo cristiano, egli fa riferimento a un nuovo modo di esistenza. Per descrivere questo modo, l’apostolo impiega il greco pneumatikós, spirituale, “essere-nello-Spirito” (ad esempio 1 Cor 2,15). «Chi si fa compenetrare e trasformare dallo Spirito (in greco pnêuma) del Cristo glorificato come nuova ed efficace presenza di Dio e poi orienta in modo conseguente la sua vita, vive “pneumaticamente”, spiritualmente» (p. 12). Per tradurre quest’esperienza, gli autori latini useranno l’aggettivo spiritualis. Questa parola divenne in seguito di uso generale. Il sostantivo spiritualitas è documentato nel V secolo e designa la perfezione cristiana.

Nella Bibbia – spiega Benke – ci sono tre concetti che indicano concretamente la direzione della spiritualità: pietà, perfezione e santità.


Quanto alla pietà, essa deriva dal greco eusébeia. Il termine viene usato nelle lettere pastorali (ad esempio in 1 Tim 6,11 e 2 Pt 1,3) e indica il rispetto dei valori, l’adorazione cultuale che si deve a Dio.

La perfezione – cosa ben distinta dall’odierno perfezionismo – ricorda che l’osservanza dei comandamenti e l’integrità morale sono buone, ma non sono ancora tutto. L’amore è «il vincolo della perfezione» (Col 3,14; cf. Rm 13,8-10). Compresa in senso cristiano, la perfezione è una vita condotta nella radicale consapevolezza della stoltezza della croce (1 Cor 2,6), è quindi conformità a Cristo (Col 1,28).

La santità, infine, indica anzitutto la realtà di Dio, in sé inaccessibile per l’essere umano. Ma questi è entrato nella santità di Dio grazie all’opera mediatrice di Gesù. In Cristo, la santità è una chiamata rivolta a tutti. I cristiani sono già «santi in Cristo» (cf. 1 Cor 1,2; 6,11). “Santificato” dice che la santità è qualcosa che avviene nell’uomo.

Sequela

Abbiamo fatto riferimento al titolo del libro che evoca la sequela e, di fatto, l’ultimo volto biblico che abbiamo evocato implica la natura cristica della santità del cristiano. Parlare di sequela implica necessariamente il volto relazionale della spiritualità cristiana. Essere spirituali nel cristianesimo non è fare un’ascesi solitaria, ma è stare con Cristo, imitare Cristo, seguire Cristo, unirsi a Cristo. Scrive l’a.: «L’immagine della “sequela” ha bisogno almeno di due persone per essere sviluppata. Tra la persona che precede e quella che segue deve esserci un legame e, almeno in forma iniziale, deve essere istituita una relazione. L’immagine presuppone dunque che ci sia una persona che precede. Questa indica la direzione e la meta. La persona che segue si fa guidare. Ciò avviene guardando, in modo in certo modo abituale, alla guida che sta davanti» (p. 18). Oltre a questo aspetto duale, c’è un'altra dimensione che risalta dall’espressione sequela, ovvero il fatto di un «netto divario» tra le due persone. Se uno non fosse avanti, se non fosse precedente, l’altro non lo seguirebbe. Per questo, chi sta dietro guarda verso chi sta davanti e lascia definire il cammino da colui che lo precede. Da qui l’ingresso dell’altro concetto divenuto fondamentale nella spiritualità cattolica: l’imitazione (in greco mímesis).

Alla luce della fenomenologia della sequela, l’autore ripercorre le varie epoche della storia cristiana per vedere le diverse concretizzazioni della sequela scandendo le parti del suo lavoro secondo il ritmo dettato dalla definizione di spiritualità di Friedrich Wulf. Quest’ultimo afferma che la spiritualità cristiana è «la risposta esistentiva dell’essere umano, prodotta dallo Spirito, all’azione santificatrice di Dio compiuta nel suo Spirito. Tra l’azione di Dio e la risposta umana, quasi come un anello unificante, c’è lo Spirito, lo Spirito dell’amore, che è stato riversato nei nostri cuori (cf. Rm 5,5). Egli unisce l’azione di Dio e dell’umanità; crea comunione; egli fa sì che ogni agire umano, che si riferisce al compimento di uomo e mondo, alla salvezza, sia in fondo grazia, e ogni grazia accettata diventi propria dell’essere umano, entri nella sua stessa attività ed esistenza».

Alla luce di questa densa citazione, Benke sviluppa il suo progetto di una storia della spiritualità partendo dagli albori della spiritualità nella sequela Christi e cercando di rispondere man mano che avanza l’esplorazione e la presentazione alle seguenti domande: perché oggi è importante per la fede occuparsi della storia della fede? quali modelli di sequela (di spiritualità cristiana) si possono mettere a fuoco (tipologia)? che cosa – in base ai progetti di sequela presentati – costituisce una spiritualità cristiana? in che relazione stanno la sequela con la chiesa, la molteplicità con l’unità? che relazione c’è tra spiritualità e teologia?

Ignazio d’Antiochia

Prendiamo, a mo’ d’assaggio, due esempi di sequela provenienti non solo da due epoche, ma da due sensibilità diverse, ma convergenti nella passione e nella centralità dell'amore di Dio. La trattazione di Benke procede con sintesi che riassumono passaggi importanti nel pensiero e nella prassi dell’autore/personalità scelta e citazioni dirette delle opere per permettere un contatto diretto con i testi.

Ignazio, incoronato martire prima del 117 d.C., è il secondo successore di Pietro per la Chiesa di Antiochia. Scrisse sette lettere alle comunità cristiane. Sono scritti preziosi perché sono addirittura anteriori agli scritti tardivi del Nuovo Testamento.

Ignazio – spiega Benke – aspira alla comunione di passione con il Dio sofferente (riferendosi con questo a Cristo). Usa quindi il verbo greco sym-pathêin, com-patire.

Ignazio è un vero folle di Cristo, un folle d’amore. Questa follia si tocca con la mano leggendo le sue lettere: «Se, infatti, queste cose sono state fatte in apparenza dal Signore nostro, anche io sono incatenato apparentemente. Perché mi sono consegnato alla morte […]? Ma quando sono vicino alla spada, sono vicino a Dio, in mezzo alle belve, sono in mezzo a Dio […]. Sopporto tutto per partecipare alla sua passione, dandomene la forza egli stesso» (Agli Smirnesi 4, 2).

Ignazio esprime con la parola “imitazione” il profondo desiderio di vicinanza e di identificazione personale con il Cristo sofferente: «È bene per me morire in Gesù Cristo piuttosto che regnare sino ai confini della terra. Io cerco colui che è morto per noi, voglio colui che è risorto per noi. La rinascita mi si avvicina. […] Permettetemi di essere imitatore della passione del mio Dio» (Ai Romani 6, 1.3).

Ignazio è convinto che la sequela di Cristo si compie solamente nel martirio. L’unità con Cristo c’è quindi solamente per il martire. In base a questo si possono comprendere la tranquillità di Ignazio e la sua richiesta di non fare nulla per liberarlo dalla sua condizione. Egli affronta con consapevolezza la morte crudele: «Io scrivo a tutte le chiese e annunzio a tutti che muoio volentieri per Dio, se voi non me l’impedite. Vi prego di non essere per me di un’inopportuna benevolenza. Lasciatemi essere pasto delle belve, per mezzo delle quali mi è possibile raggiungere Dio. Sono frumento di Dio e sono macinato dai denti delle belve per diventare puro pane di Cristo. Piuttosto accarezzate le belve perché diventino la mia tomba e non lascino nulla del mio corpo […]. Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo […]. Pregate Cristo per me, affinché con questi mezzi diventi vittima di Dio. […] Ora incomincio ad essere un discepolo. Niente di visibile e invisibile mi impedisca per invidia di raggiungere Gesù Cristo» (Ai Romani 4, 1-2; 5, 3). Non sorprende allora che la preghiera che chiede non è quella di essere liberato, ma di essere “vittima”, non degli uomini, ma di Dio: «Pregate Cristo per me, affinché con questi mezzi diventi vittima di Dio» (Ai Romani 4, 2).

Francesco di Sales

Francesco di Sales (1567-1622) combina mistica e pastorale. La sua esperienza personale di Dio, quella che si considera come la sua “seconda conversione”, all’età di vent’anni circa, lo conduce dall’angoscia del senso di colpa che lo faceva sentire rifiutato da Dio a un senso grande della dimensione positiva del cammino di sequela.

Per mostrare il lato positivo della sua spiritualità, Benke attinge a una sua lettera nella quale scrive a “lettere maiuscole” a Jeanne Françoise de Chantal come regola generale: «OCCORRE FAR TUTTO PER AMORE E NULLA PER FORZA; OCCORRE AMARE L’OBBEDIENZA PIÙ DI QUANTO SI TEME LA DISOBBEDIENZA! Vi lascio lo spirito della libertà».

Nel corso della sua attività pastorale, Francesco di Sales scrive due trattati spirituali (Introduzione alla vita devota - Filotea; Trattato dell’amore di Dio - Teotimo) e numerose lettere. Una parte importante dell’insegnamento di Francesco di Sales è la connessione necessaria tra mistica e prassi. Sintetizzando il suo afflato, Benke scrive: «Se la mistica resta in sé stessa, non è (ancora) cristiana. Essa porta all’“estasi dell’azione”. Mistica e pastorale vanno di pari passo» (p. 154).

La spiritualità di Francesco è profetica per la sua epoca e sintetica per ogni epoca. In un’epoca in cui tende ad affermarsi un rigorismo scrupoloso concentrato sulla perfezione morale, Francesco ricorda che il coronamento della perfezione è la carità. Così scrive nel Trattato dell’amore di Dio: «L’uomo è la perfezione dell’universo, lo spirito è la perfezione dell’uomo, l’amore quella dello spirito e la carità quella dell’amore: ecco perché l’amore di Dio è il fine, la perfezione e l’eccellenza dell’universo».

Questa prassi dell’amore si fonda su una coscienza radicata nell’amore e nella provvidenza di Dio: «Il mio passato non mi preoccupa più, appartiene alla misericordia divina, il mio futuro non mi preoccupa ancora, appartiene alla provvidenza divina. Ciò che mi preoccupa è l’adesso, qui e oggi; esso però appartiene alla grazia di Dio e all’impegno della mia buona volontà».

Liberato dall’amore di Dio, la persona umana può vivere una sequela libera e gioioa: «Vi ho detto questo, e lo riscrivo: non voglio una pietà isolata, inquieta, triste, scontrosa e arida; ma una pietà moderata, tenera, piacevole e serena, in una parola una pietà libera e gioiosa, amabile davanti a Dio e agli uomini».

 

 

 



Robert Cheaib
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