La santità non è un lusso

«Una goccia di santità – diceva il musicista Gounod – vale più di un oceano di genio». A guardare la vita dei santi, si è inondati da una immensità di luce che fa comprendere qualcosa del mistero di Dio più di quanto possa farlo qualsiasi spiegazione razionale.
Madre Teresa era convinta che essere santi «non è un lusso, ma una necessità». Di quale necessità si tratta? Innanzitutto si tratta di una necessità pratica, richiesta dal vangelo e dai poveri. Ma anche di una necessità «metafisica»: saremo pienamente noi stessi se saremo santi. Madre Teresa ha le idee chiare: «Oggi la Chiesa ha bisogno di santi. Ciò esige di combattere il nostro attaccamento alle comodità che ci portano a scegliere una mediocrità comoda e insignificante. Ognuno di noi ha la possibilità di diventare santo e la vita per la santità è la preghiera. La santità è per ciascuno di noi un dovere semplice».
Ora ogni santo è un’invenzione unica di Dio e la santità di madre Teresa copre un’estensione incredibile tra la presenza concreta del vangelo del servizio con i più poveri dei poveri e il volto ineffabile e mistico dell’esperienza di Dio nella notte dell’anima.
È in quest’ultima sfumatura che Raniero Cantalamessa, predicatore della casa pontificia, sviluppa la sua riflessione nel libro Madre Teresa. Una santa per gli atei e glisposati. Il libro raccoglie delle meditazioni che il frate cappuccino ha tenuto nel 2003 davanti al Santo Padre Giovanni Paolo II.

Un volto nascosto

Madre Teresa non è riuscita a tenere celato la sua grande opera di carità. Ma c’è una carità eroica, un Amore mistico che è riuscita a tenere nascosto per tutta la sua vita. Quest’amore è stato la sua forza e il suo tormento. L’ha rivelato a poche persone. Persone che ha supplicato di distruggere le prove. Persone che, grazie a Dio, nonostante tutta la stima e l’amore per la Madre, non hanno obbedito. Si tratta di scritti che raccontano di un tormento spirituale immenso. Essi, «lungi dal diminuire la statura di Madre Teresa di Calcutta, la ingigantiscono, ponendola al fianco dei grandi mistici della cristianità. Una delle definizioni più celebri della mistica dice che essa consiste nel “patire il divino”. Pati divina è espressione in verità intraducibile, che possiamo intendere nel senso di sperimentare Dio con sofferenza, vivere una passione divina (nel duplice senso di dolore e di amore della parola pathos, passione). Questa definizione la vediamo realizzata in pieno nell’esperienza di Madre Teresa» (37-38).


L’esperienza di notte della Madre inizia molto presto. Così ne testimonia un sacerdote che le è stato vicinissimo, p. Joseph Neuner: «Con l’inizio della sua nuova vita a servizio dei poveri, una opprimente oscurità venne su di lei».  
Cantalamessa osserva che «il fiore più profumato della notte di Madre Teresa è il suo silenzio riguardo a essa. Aveva paura, parlandone, di attirare l’attenzione su di sé». Infatti, il pericolo più grande per l’anima nella notte della fede è accorgersi di essa, convincersi che si sta vivendo quello che vivono i grandi mistici, sentirsi un degno commensale della mensa delle anime elette. Madre Teresa non ha nulla di questa coscienza. Anzi, lei denuncia il vuoto che vive dicendo: «Il mio essere gioiosa non è che un manto con cui copro vuoto e miseria».

Rivelazione del volto

Il paradosso grande, però, è che quest’anima che visse nel buio è stata una luce radiosa, abbagliante che ha attirato verso Cristo. Cantalamessa fa dialogare l’esperienza di Madre Teresa con quella di san Paolo della Croce, con l’esperienza del silenzio e della desolazione di san Pio da Pietrelcina. Il contrasto è così ricorrente nella vita di diversi santi tanto da sembrare la regola: queste anime trascorrono la vita al buio e da lì, da quella notte, illuminano.
Ma perché questa notte? Cantalamessa spiega che questo buio non si spiega con la tradizionale idea della via purgativa, perché queste anime entrano nel buio quando sono già in elevati stadi della vita di perfezione. C’è una ragione più profonda per spiegare la notte. Si tratta della partecipazione alle sofferenze di Cristo (cfr. Fil 3,10) compiendo nella loro carne quel che manca ai patimento di Cristo per il suo corpo che è la Chiesa» (cfr. Col 1,24).
Anime così possono essere i migliori compagni verso Dio degli atei di buona volontà. Santi come Madre Teresa hanno vissuto un certo ateismo, una privazione di Dio, ma nella loro esistenza hanno confutato l’ateismo divenendo riflesso vivo del Dio che non sentono.

Che c’entrano gli sposi?


Un’ultima parola sul sottotitolo. Cantalamessa presenta Madre Teresa come compagna degli sposi perché, nella difficoltà – ordinaria o straordinaria – della vita nuziale, la santa dà una lezione su quanto l’amore non sia facile, ma che ciononostante meriti tutta la nostra dedizione. Una volta, Madre Teresa parlando alle donne le esortò a sorridere spesso al proprio marito. Una delle presenti le fece osservare: “Madre, lei dice così perché non è sposata e non conosce mio marito”, al che la Madre ribatté: “Sono sposata anch’io, a Gesù, e ti assicuro che a volte non è facile neppure per me sorridere al mio sposo».

Robert Cheaib
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