Come affermato dallo stesso autore all'inizio della sua opera, il volume Il bellissimo niente che l'uomo può fare di Giovanni Salmeri, rientra nel genere letterario delle prime lezioni con il loro intento più introduttivo, volto a suscitare domande piuttosto che dettare risposte e desideroso di suscitate curiosità e interesse.
Il libro pone la questione etica con un sapore religioso in un tempo in cui si guarda (almeno da parte religiosa) con nostalgia a quei tempi eri valori condivisi.
La ripresa della questione etica si fa urgente guardando alle «reazioni angosciate di fronte allo sbriciolamento di un consenso etico» in un tempo dove «l'incertezza di ciò che andrebbe trasmesso [...] e gli effetti destabilizzanti delle nuove forme di communicazione e socializzazione provoca una paralisi degli atti educativi stessi di cui è difficile trovare l'antecedente» (9).
Nel primo capitolo l'a. parte dalla lettera di Paolo ai romani dove l'apostolo afferma la naturale conoscenza di Dio. Su questa premessa, l'a., dialogando con Tommaso e Scoto, evidenzia come per la fede cristiana, non solo la seconda tavola dei comandamenti, ma anche la prima tavola, quella legata a Dio, non è opinabile o legata a un'opzione personale arbitraria ma «il punto di convergenza di un'interpretazione razionale del mondo» (25).


«Il risultato è dunque curioso: proprio lo sforzo della verità e ragionevolezza del cristianesimo porta alla conclusione che, sul piano morale, esso non ha nulla di nuovo da dire. È come se l'etica cristiana entrasse sulla scena dichiarando di non esistere, e sforzandosi di dimostrarlo» (26). In altre parole, «un'etica cristiana non esiste, perché essa s'identifica con i principi etici che ogni uomo può di per sé conoscere» (27).
Tornando al pensiero di Paolo nella Lettera ai romani, lo stesso apostolo che afferma la naturalezza della conoscenza del bene e del dovere morale alla luce della ragione naturale, afferma l'insufficienza della giustizia delle opere. Sia il greco sia il giudeo si trovano in difetto. Secondo Aristotele, l'etica punta alla felicità dell'uomo. Ora il cristianesimo afferma che «esiste sì una felicità a cui l'uomo è destinato, ma non è la felicità che egli può raggiungere con le proprie forze» (47). L'uomo desidera l'infinito, un infinito che non può dare a sé. Il salmista esprime la voce umana di questa sete che l'uomo non riesce a saziare con i propri sforzi e mezzi: «L'anima mia ha sete di Dio, del Dio Vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio?» (Sal 42.3).


L'a. chiarisce che ciò che la fede cristiana fa non è tanto contestare l'etica immanente e non religiosa, «quanto piuttosto mettere davanti all'uomo la vita eterna: e dirgli che quel suo desiderio non è un'illusione da curare, ma una speranza possibile» (60).
E che ne è del comportamento dell'uomo in questo contesto di grazia? Giacomo è Paolo non si contraddicono, ma costituiscono una complementarietà. In Paolo è chiarito il senso dell'insistenza di Giacomo sul valore delle opere. «Per il cristiano il comportamento buono è più conseguenza della grazia che una sua premessa o causa» (64). Il Concilio di Trento riassume questa mirabile opera della grazia con espressioni dal sapore agostiniano: «Dio è tanto buono verso tutti gli uomini, da volere che diventino loro meriti quelli che sono suoi doni».
Il nostro fare è superfluo e necessario sul tempo. In quella pace ludica di riconoscerci superflui cogliamo la necessità di Dio e quanto siamo stati eletti come necessari da lui. «La gioia finale, dice la fede cristiana, è opera solo di Dio. Ma gli uomini possono e debbono fare la loro parte in questa terra dolorosa drammatica e magnifica: anche se in confronto a ciò che da Dio questo è quasi niente. “Se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori. Se il Signore non vigila sulla città, invano veglia la sentinella» (Sal 125,1)» (111).

La conclusione dell'a. spiega il senso del titolo: ciò che l'uomo può fare è quasi niente, ma questo niente è bellissimo e degno di fatica e passione.
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