«Predicare è re-immaginare», diceva il predicatore protestante statunitense Walter Brueggemann. Forse questa frase riassume l’intento del libro di Gaetano Piccolo e Nicolas Steeves, E io ti dico: immagina! L’arte difficile della predicazione, edito da Città Nuova.
Ogni volta che Gesù diceva (e lo diceva spesso): «Il regno di Dio è simile a…», stava invitando a usare l’immaginazione, a cogliere l’analogia tra gli enti di questo mondo e l’essere di Dio e il conseguente rapporto con lui. «Non c’è Parola di Dio che possiamo sentire se non in parole umane» (17) e ciò vale anche per la predicazione di Gesù, maestro nell’uso dell’analogia entis.
Gli autori esplorano all’inizio del libro le specifiche della chiamata profetica all’annuncio. Si evince che i profeti non sceglievano il “mestiere” dell’annuncio, ma rispondevano a una chiamata misteriosa. Parlavano Dio perché avevano sentito e udito Dio. «Il vero predicatore-profeta non manda se stesso verso una missione autopubblicizzante, ma viene mandato alla missio di Dio da Dio stesso» (19). Il predicatore fa da bocca di Dio nonostante la sua indegnità.
Nel Nuovo Testamento, soprattutto nell’esperienza di Paolo, possiamo vedere il convergere tra sforzo umano e grazia di Dio. Predicare non sempre è facile e non sempre è entusiasmante, come si deduce dalle esperienze di predicazione di Paolo, non sempre di successo o esaltanti.
Agostino rilegge l’azione dell’oratore attraverso tre verbi classici della retorica latina: docere, dilectare e flectere. Quest’ultimo verbo riassume il senso del secondo capitolo dell’opera intitolato: «Si predica non tanto per sé, quanto per salvare chi ascolta». John Henry Newman – autore spesso citato nel libro – era cosciente di tale nesso e lo si desume dal titolo di un suo discorso pronunciato poco prima della sua conversione alla Chiesa Cattolica: «The Salvation of the Hearer the Motive of the Preacher (La salvezza dell’uditore è la motivazione del predicatore)».

E io ti dico: immagina!
E io ti dico: immagina!
Gaetano Piccolo , Nicolas Steeves

La liturgia e i simboli liturgici sono importanti, ma, come sottolinea la Sacrosanctum Concilium, «la sacra liturgia non esaurisce tutta l’azione della Chiesa. Infatti, prima che gli uomini possano accostarsi alla liturgia, bisogna che siano chiamati alla fede e alla conversione» (n. 9).
A partire dall’importanza del recupero della missione della predicazione, gli autori offrono – con simpatia ed empatia – una rassegna di alcuni errori della predicazione che ci limitiamo a elencare: mancanza di preparazione, assenza di messaggio centrale, lunghezza eccessiva, lo spettacolo d’intrattenimento,… per indicare alcuni errori formali. Mentre gli errori materiali elencati sono: autoreferenzialità del predicatore, moralismo, spiritualismo, intellettualismo, catechismo e parafrasi. 
Gli autori invitano a vivere l’omelia come evento comunicativo che parte da una comunione intima e stretta tra il predicatore e il Signore. Colpisce nel segno l’Evangelii Gaudium quando afferma: «Le letture della domenica risuonano in tutto il loro splendore nel cuore del popolo, se in primo luogo hanno risuonato così nel cuore del Pastore» (EG 149).
Sulla base di questa relazione fondamentale vissuta nella preghiera, il predicatore deve rapportarsi alla realtà della gente a cui predica, occorre che «si lasci contaminare dalle domande della gente» (63). Lì, in questa empatia al mondo di Dio e al mondo dell’uomo si innesca l’evento comunicativo dove il predicatore deve svolgere il compito della traduzione dell’annuncio attraverso esempi, immagini, domande e sollecitazioni.
Il quarto capitolo considera gli elementi essenziali per costruire l’omelia. Basandosi sulla retorica di Aristotele, gli autori offrono una riflessione sui pilastri portanti di una comunicazione efficace partendo dall’ethos, ovvero la credibilità umana e morale di chi annuncia.
Si passa, in secondo luogo, per il pathos, ovvero la necessità di condurre gli ascoltatori con il discorso verso una passione, un coinvolgimento personale ed emotivo perché «se il discorso rimane solo al livello logico-razionale, se non tocca le emozioni, certamente gli uditori faranno fatica a contemplare Gesù e a cambiare la loro vita» (86).
La terza colonna è il logos, dove gli autori sottolineano la necessità che il discorso abbia una qualità logica, razionale e discorsiva. In questa sede viene consigliata la brevità - «Brevity is the soul of wit», scriveva William Shakespeare – perché ingozzare l’uditorio come le oche del foie gras porta spesso a un disaffezionamento che distanzia piuttosto che avvicinare.



L’ultimo capitolo si concentra sul senso e sulla qualità dell’impiego dell’immaginazione nella predicazione. Immaginare non è dar libero sfogo alla propria fantasia, ma è cogliere quelle immagini che ci permettono di comprendere e di abbracciare meglio il nostro vissuto.
La Bibbia è ricca di immagini e nutre il suo lettore e ascoltatore con immagini vere che contrastano le false immagini, gli idoli.

L’invito non è né a un vuoto immaginale, né a immagini ingenue, ma a immagini reali e realizzanti. In questo senso il predicatore deve «portare l’uditore a contemplare l’incarnazione del Verbo eterno di Dio mediante lo Spirito perché l’uditore stesso progredisca nella propria incarnazione» (110).
Vuoi seguirci sul tuo smartphone? Puoi ricevere tutti gli articoli sul canale briciole