Che senso ha parlare di regola per noi che siamo «post-tutto» e ci riteniamo ormai avveduti e pertanto emancipati da regole. L’uomo postmoderno, l’uomo senza regole, in quei pochi momenti di lucidità in cui si trova col telefono scarico o con le distrazioni provvidenzialmente sospese, si ritrova come «uomo senza qualità», per echeggiare Musil.
L'epoca moderna ha posto il soggetto al centro dell'universo, l'epoca postmoderno si è trovata con un soggetto liquido senza consistenza. L'uomo è al centro, ma è una «passione inutile» (Sartre).
Rispetto alla ripulsione verso le regole del postmoderno, la sapienza monastica ha percorso e percorre una strada diversa rispetto al moderno e al posto moderno. Essa sostiene che la bellezza di una strada di umanizzazione passa per l'invenzione di «una misura, una regola, di un passo, di uno stile, di un metodo», un'arte di vivere, a partire dalla custodia del cuore, dalla cura della propria interiorità.
In questo contesto, la badessa Maria Ignazia Angelini, nel libro A regola d'arte (Città Nuova 2017), parte dall'affermazione di Rabbi Hillel –  «Se io non sono per me, chi sarà per me? E se io sono per me, chi sono io? E se non ora, quando?» – e spiega il primo interrogativo con l'esigenza di contestualizzare se stessi per scoprire se stessi. Se si vive solo per sé non si è nessuno. «Il mio esserci invoca un tu che dia nome e perciò senso alla mia finitudine».
La formazione di una regola per la propria vita è possibile quando l'uomo è in ascolto. «Dammi un cuore che ascolta» recita la preghiera di Salomone a Dio (1Re 3 5.7-12).
La cosa sicura, per Angelini, è che la regola di vita del cristiano è collocabile «più nell'orizzonte della regola d'arte che in quello della regola tecnica dell'artigiano».
Un altro elemento interessante che scaturisce dalla riflessione dell’A. è che la regola non è assimilabile alle regole della cura di sé solipsistiche che assomigliano tanto alla moda del autoscatto, dei selfie, e che costituiscono un tentativo di costruirsi in funzione di un immagini da produrre, dalle regole del fitness agli esercizi di meditazione.
La riflessione sulla regola di vita, che viene esplicitata in dialogo con diversi autori tra cui Michel Foucault e Michel de Certeau, giunge a chiarire che regola non è un tipo di etica ma è una «estetica dell'esistenza».
Nell'ottica di Michel de Certeau, è più uno «stile di vita» che una regola, è scoprire che il principio della nostra esistenza non siamo noi, ma un Altro che ci costituisce, ci chiama, e che l'arte di esistere è essenzialmente l'arte di ascoltare… che non siamo mai realmente senza l’Altro.
Il riferimento a Gesù in questa costituzione della regola si pone nella prospettiva rivoluzionaria dell'arte e dello stile d'esistere del Rabbi di Nazaret. L’esistenza di Gesù è paradigma dell'esistenza umana. Ogni vivere umano è teso verso la propria realizzazione nella realtà del Cristo. Secondo le parole di un grande maestro dell'Oriente, Isacco il Siro: «Che altro è la vita umana se non l'esegesi di quella sua stenosi che adempie la piena misura dell'umano». Ogni regola di vita delinea lo stile di questa esegesi vivente.



Stefano di Muret spiega con termini chiari: «Non c'è altra regola che il Vangelo di Cristo». Angelini ricorda che le regole monastiche erano un modo per vivere più autenticamente il Vangelo e non erano sostitutive al Vangelo. «All'epoca di San Benedetto sicuramente la vita monastica era, molto meno che oggi, una scelta di vita molto distinta da quella degli altri esseri umani. Sono stati i secoli del Medioevo, e soprattutto in Occidente, a fare dei monaci una specializzazione della scelta cristiana, una forma di perfezione e di mediazione parentesi una sorta di sacerdozio non l'ho ordinato chiusa parentesi nel rapporto con il sacro. Questa è conseguenza della situazione di cristianità. Per Benedetto non è ancora così».
In questo senso tutte le regole monastiche non sono che traduzioni dell’unica regola che è il Vangelo. Nel declinare la regola di vita, il metro non è l'eccesso ma piuttosto il trovare misura secondo l'insegnamento dei Padri del deserto «ne quid nimis» (niente in eccesso). Trovare una regola di vita è recuperare l'armonia primigenia. Il Vangelo è il cuore della regola, esso aggiunge alla regolarità della vita «una dinamica dialettica, una specie di movimento tellurico, ponendo a modello irraggiungibile, e tuttavia polarizzante, l'umano di Gesù».

La regola di vita, che passa per l’ascolto onesto della parola, la coscienza che invoca, la salmodia, la moderazione, l’auscultazione dell’interiorità e dei segni dei tempi, è un compito imprescindibile, ma anche un traguardo irrealizzabile con le sole forze umane. Per questo, chiudendo questa breve presentazione, non posso che chiudere con le stesse parole che l’A. presenta verso la fine del suo testo, affidandosi al senso religioso di Simone Weil: «Lo sforzo della volontà teso alla virtù e all’adempimento degli obblighi non ha valore in quanto tale, ma come una preghiera senza parole, una preghiera fatta di gesti, muta… Una preghiera fatta di gesti è ancora più umile di una preghiera espressa con parole o grida anche interiori o con un desiderio tacitamente diretto. Significa sapere che non si può nulla, e tuttavia esaurirsi in sforzi riconosciuti come inutili, nell’attesa umile del giorno in cui forse questo sarà notato dalla Potenza che non si osa implorare. Non c’è atteggiamento di maggiore umiltà dell’attenzione muta e paziente. È l’atteggiamento dello schiavo pronto a qualsiasi ordine del padrone o all’assenza di ordini. L’attesa è la passività del pensiero in atto. L’attesa è trasmutatrice del tempo in eternità».
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