Esiste un rapporto di desiderio reciproco tra Dio e l’uomo? A guardare rapidamente l’esperienza religiosa dell’uomo contemporaneo, per quanto non sia giusto fare delle generalizzazioni, troviamo difficile constatare il suo desiderio di Dio. Che dire poi del desiderio di Dio verso l’uomo? Può l’eterno e il perfetto desiderare il temporale e l’imperfetto? Già queste semplici osservazioni ci mostrano l’interesse che può rivestire il libro di Jean-Baptiste Lecuit, Le désir de Dieu pour l’homme. Une réponse au problème de l’indifférence.
Nell’introduzione, l’a. evidenzia il disinteresse dell’uomo contemporaneo verso la questione di Dio, sottolinea che il vero problema non è la questione di verità, quanto la questione della desiderabilità reciproca. Dio importa all’uomo? L’uomo importa a Dio?
Fenomenologia del desiderio umano
La prima delle due parti del volume è dedicata al desiderio dell’uomo per Dio. L’a. mostra che il desiderio è una tendenza verso una «configurazione relazionale». I termini “bisogno”, “desiderio” e “volontà” evocano delle realtà che, pur essendo attigue, sono mutualmente irreducibili. Nella fattispecie, il desiderio, irriducibile alla mancanza, è piuttosto una potenza, un dinamismo orientato ed è inseparabilmente «passività riguardo a ciò che ci manca, e attività di ricerca e di conquista indefinita». Vi è, poi, affinità tra desiderio e volontà. Quest’ultima viene intesa come desiderio razionale (rationalis appetitus) e come libero arbitrio (liberum arbitrium).
Rifacendosi a Tommaso d’Aquino, l’a. mette in luce come il desiderio non rilevi soltanto un appetito inferiore, ma anche un appetito superiore. Per Tommaso la volontà e il libero arbitrio non formano due potenze, bensì una sola. In questo modo non oppone affatto desiderio e volontà. Queste puntualizzazioni sono di importanza suprema perché soltanto riscattando il valore del desiderio sarà possibile parlare di desiderio in Dio e di Dio.
In breve, la prima parte si presenta come una ricca e complessa fenomenologia del desiderio in chiave filosofica, biblica e teologica. L’a. non trascura alcune questioni che hanno animato diversi importanti periodi della storia della teologia come la sussistenza e la possibilità di un desiderio naturale di Dio.
Nell’analisi neotestamentaria in particolare, l’a. sottolinea come pregare per la venuta del regno di Dio costituisca la traduzione concreta del desiderium affinché Dio venga in noi e in tutta l’umanità. In altre parole è desiderare Dio per se stessi e per gli altri.
L’uomo desidera Dio e continuerà a desiderarlo anche quando la sua vita sarà in Dio. «Per quanto Dio è sempre lo stesso, l’uomo che si troverà in Dio progredirà sempre verso Dio. Dio non cesserà di colmare e di arricchire l’uomo, e l’uomo non cesserà di essere colmato e arricchito da Dio» (Ireneo di Lione). Di parere simile sono San Bernardo e Santa Caterina da Siena, i quali in qualche modo riecheggiano già la convinzione agostiniana che si esprime nel paradosso di una insaziabile sazietà. Giovanni della Croce, riecheggiando Gregorio Magno, afferma che l’anima che desidera veramente Dio tiene in sé già Colui che ama.
Il desiderio di Dio
La seconda parte del volume è di gran lunga la più innovativa. L’a. esplicita già dall’inizio la problematicità del tema. Il desiderio è classicamente compreso come supponente la mancanza di un bene futuro. Sembra dunque impossibile affermare che Dio possa desiderare. Essendo il Bene originale ed infinito, la Fonte di ogni bene, come potrebbe mancare a Dio qualche bene? e da chi potrebbe acquisirlo? Come potrebbe un bene mancare a Dio e venire da lui acquisito nel futuro? Dio non è forse trascendente il tempo e la storia?
La teologia classica fa leva su due grandi autori nell’affermare l’insussistenza del desiderio in Dio: Agostino e Tommaso d’Aquino. Per l’Aquinate solo l’amore e la gioia possono essere attribuiti a Dio in senso proprio, a condizione di scartarne la dimensione della passione. Ciò che implica imperfezione non può essere attribuito che per metafora per esprimere la similitudine degli effetti. «Dio basta a se stesso e soddisfa i propri desideri (implet desiderium suum)».
Tale visione viene messa in discussione da diversi autori di rilievo che spaziano tra mistica e teologia. Francois Varillon evidenzia come il disinteresse spinto al limite non è altro che indifferenza all’altro e quindi una negazione dell’amore. Egli si rifà ai mistici, ma anche a un grande poeta con intuizioni profetiche come Charles Péguy. Quest’ultimo va fino ad attribuire a Dio un bisogno della propria creatura. Bisogno che non ha niente di ontologico, ma che deriva da una libera scelta (choix) con la quale decide liberamente di amare la propria creatura. Tale ardire lo possiamo rintracciare in grandi figure di mistici e di dottori della Chiesa come Caterina da Siena e Thérèse di Lisieux e anche i tomisti contemporanei come Jean Hervé Nicolas.
Una teologia che si avvicina alla suddetta prospettiva porta la firma di Hans Urs von Balthasar che introduce il rischio (Wagnis) nel cuore stesso di Dio. Il Creatore vive una kenosi, «cede una parte della sua libertà alla creatura», in previsione della grande folle kenosi della croce nella quale raggiunge e sorpassa le conseguenze le più estreme della libertà creata. Joseph Moingt afferma che il desiderio di Dio è un desiderio di abitare in noi. Tale desiderio, che è un movimento d’amore, possiamo chiamarlo Spirito Santo. Il desiderio, in altri termini, è ipostatico in Dio.
Benedetto XVI riprende un importante filone che risale fino al pseudo-Dionigi il quale, già nel V secolo, non esita ad attribuire l’erôs a Dio. Egli, in realtà, riprende a sua volta un filone ripetutamente affermato dai Padri greci ovvero il fatto che Dio ha sete della nostra sete di lui (Deus sitit stiri).
Lecuit offre in tre capitoli un’esplorazione ricca della ricezione del pensiero dell’Areopagita sull’erôs divino a partire dal XII secolo fino al XIX. Vengono così esplorati i contributi – giusto per dare qualche nome – di Caterina da Siena, i mistici renani e fiamminghi, i carmelitani come Teresa d’Avila e Giovanni della Croce, i contributi di san Francesco di Sales e dei gesuiti Molina, Bañez, Lessius, Suarez, fino a sant’Alfonso de’ Liguori e Fredrick William Faber.
Tale esplorazione esprime la complessità del tema e porta, in ascolto della tradizione spirituale, a conclusioni che possiamo riassumere nelle parole di un teologo del XVIII secolo, Juan Marín, il quale afferma: «Dio non desidera (desiderat) meno la nostra salvezza di quanto l’abbia desiderata Cristo. Ora Cristo ha desiderato ardentemente la nostra salvezza. Dio desidera la salvezza degli uomini con un sentimento simile a quello degli uomini, di cui diciamo che desiderano qualche cosa ardentemente, sebbene in una maniera non assolutamente efficace».
Il capitolo X dell’opera è quello più audace. Esso pone già dall’inizio una domanda bruciante: la perfezione di Dio esclude o implica il desiderio? Tale domanda si apre a un’altra ancora più scottante: la salvezza degli uomini è infinitamente desiderata o infallibilmente decisa? L’enjeu del problema risiede nel fatto che l’affermazione del desiderio in Dio comporta necessariamente un’idea di un quid non ancora posseduto o saputo. Ora se Dio fosse onnisciente, come potrebbe desiderare? Per questo l’a. evidenzia una incompatibilità tra onniscienza e impossibilità di soffrire e di desiderare. L’autore afferma, sulla scia di Thomas Pröpper, che «se da una parte la teologia non può rinunciare ai predicati dell’onniscienza e della prescienza di Dio, essa deve non di meno interpretare tale affermazione a partire dall’essere rivelato di Dio in Cristo e alla luce del suo amore». Dio spera nell’uomo e nella sua libertà. In questo senso Lecuit giunge ad affermare che Dio conosce gli atti liberi delle sue creature solo nel momento in cui essi sono effettuati, e non a priori. Si rimpiange che proprio questa parte, assolutamente rivoluzionaria, sia così poco sviluppata e argomentata. Le obiezioni sollevate nel capitolo sono tutt’altro che marginali e avrebbero meritato un degno approfondimento filosofico e teologico che in questo volume manca.
L’ultimo capitolo del libro tira le conclusioni di questo affascinante percorso mostrando come «Dio desidera, di un desiderio volontario, senza mancanza ne passione subita, ma comportando sofferenza incertezza, il bene dell’uomo e la comunione con lui». Tale desiderio e tale speranza di Dio esprimono il suo interesse per l’uomo, manifestano la possibilità dell’uomo di «dare gioia» a Dio e costituiscono, secondo l’a., uno dei motivi esistenziali importanti per andare oltre il dilagante problema dell’indifferenza religiosa.
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