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Leggere la Bibbia seriamente implica leggere se stessi nella Bibbia. In tal senso, i personaggi e gli eventi diventano uno specchio, un canone, un metro con cui confrontarsi. Adamo – diceva Pascal – è mio padre, sono io ed è mio figlio. In questo, egli è nella scia di una tradizione antichissima giudeo-cristiana che si può riassumere così: «Adam, sono io, mia donna, è Eva. La storia di questi personaggi è la mia, ma anche la vostra chiunque voi siate, uomini e donne, miei fratelli. Noi siamo e saremo per sempre Adamo ed Eva, ma anche Caino, il primo criminale, e Abele, suo fratello, la vittima del primo omicidio»[1].
Similmente, siamo tutti Mosè: «Mosè, il bimbo galleggiante sul Nilo, in un cestello spalmato di bitume, sono io minacciato dalla morte dalla mia nascita da faraoni visibili e invisibili. La bella principessa che raccoglie il bambino e lo salva con la complicità di una madre e di una sorella, l’ha incontrato ognuno di noi diverse volte nella propria vita, e come Mosè ognuno le è debitore della propria sopravvivenza. Una sposa anche, Siporrà, lo salverà dalla morte compiendo il rito della circoncisione del figlio Ghersom. Perché questa “apetta” [il significato del nome di Siporrà, ndr] continua a vivere vicino a ognuno di noi»[2].
La storia di Mosè non è solo la sua, non è solo l’evento storico, ma è la storia di chi ha accolto la narrazione di Mosè e di chi è stato colto a sorpresa nella propria biografia attraverso la storia di Mosè. La storia di Mosè è la storia di chi si stupisce al trovarsi narrato nella vicenda familiare di questo estraneo[3].
La figura di Mosè è particolarmente attuale perché esprime la sofferenza della vocazione profetica. Mosè rappresenta l’uomo che discute con Dio, che dubita, che rifiuta, ma che poi scopre che il suo bene è presso Dio.
La fede di Mosè è una fede con le sue ombre, le sue resistenze, le sue arrabbiature. Per questo può essere più vicina a noi della fede eroica di Abramo. A differenza della partenza senza se e senza ma di Abramo[4], Mosè già dall’inizio discute con Dio, obietta e domanda. La sua fede è più vicina allo scenario della fede contemporaneo, una fede dipinta con sfumature di dubbio, di cedimento e di incredulità.




Nondimeno, la fede di Mosè è una fede che spera e per questo è una fede coraggiosa. Speranza e coraggio vanno di pari passo. Il coraggio non è, però, il coraggio di fare taluna cosa o l’altra, bensì «il coraggio verso se stessi nella totalità unitaria della propria esistenza umana»[5].
La speranza non è lo scrigno sigillato dei desideri, ma è il campo aperto all’impegno e Mosè è l’uomo che si impegna. È colui che ha il coraggio dei desideri e dell’entusiasmo.
Il coraggio è indispensabile per la fede in Dio quale Altro, libero e incomprensibile per l’uomo. L’uomo si trova a doversi liberamente affidare «a un’altra libertà e lasciarsela donare non come qualcosa di pericoloso, bensì come qualcosa che lo salva»[6].
La fede è un invito a una specie di eccentricità, a trovare il proprio Fondamento al di là di se stessi. A fondare la propria sicurezza nell’affidarsi all’Ineffabile.
La speranza è un duplice gesto di fedeltà: a se stessi e a Colui che ci viene incontro. È lo spazio dove l’uomo che aiuta Dio in sé si apre all’aiuto di Dio[7].



[1] A. Chouraqui, Moïse, 96.
[2] Ibid., 97.
[3] Cf. M. Buber, Mosè, 7-13.
[4] Cf. Gen 12.
[5] K. Rahner, Il coraggio di credere. La fede tra coraggio, razionalità ed emozione, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2013, 24.
[6] Ibid., 28-29.
[7] Cf. Ibid., 35-36: «Ovunque l’uomo rimane fedele in modo assoluto al dettame della coscienza, ovunque con un’ultima decisione, nonostante tutte le delusioni e i fallimenti della sua esperienza terrena, non respinge un’ultima speranza di natura incondizionata, là egli si abbandona sperando al movimento illimitato e non più calcolabile del suo spirito, là coltiva la speranza e la fede, là – per dirla in termini cristiani – è presente lo Spirito Santo, che uno sia in grado di verbalizzarselo in maniera esplicita o meno».
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