Alcuni amici hanno insistito affinché scriva qualche riflessione teologica riguardo al tema dei terremoti, se siano un castigo divino. Ho declinato, sostanzialmente per tre motivi: 
- a parte il motivo primario che è quello della mancanza di tempo, un problema "oggettivo" che mi ha costretto a sospendere - con grande dispiacere - la rubrica #rispostalvolo ...
- non mi va di prendere parte a un linciaggio pubblico.
- è un tema che richiede ponderata e misurata riflessione e non può essere trattato con la superficialità dell'opinionismo a botta e risposta diffuso sul web.
Nondimeno, dato che sto lavorando su un testo per la San Paolo dal titolo Oltre la morte di Dio previsto per la Quaresima del 2017. Mi trovo con del materiale che tocca, seppure un po' da lontano, alcuni punti del tema... 
Gli estratti non sono mai chiarissimi perché presuppongo aquisizioni precedenti e sviluppi ulteriori... ma l'amore di amicizia urge e spero che vi faccia chiudere un occhio sull'indebita celerità della trattazione in questi due paragrafi... ah, e il testo è ancora frutto del primo getto, quindi chiudete un occhio (lo stesso di prima, altrimenti non ci vedete niente) sugli errori e i paragrafi ancora da limare... 

Il Dolore innocente

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La legge del karma non è né biblica né evangelica, semplicemente perché nega l’autonomia della creazione e la libertà delle creature umane. Non tutti i mali vengono come castigo divino. Il libro di Giobbe mostra l’assurdità e l’insostenibilità della teoria della retribuzione.
La storia, sia quella collettiva sia quella individuale, smentisce la candida idea che, già su questa terra, il male colpisce i cattivi, mentre il bene premia i buoni. Diversi salmi prendono atto delle sofferenze del giusto, da un lato, e del successo dei malvagi, dall’altro, invitando a non invidiare questi ultimi, perché la loro sorte sarà la rovina[1].
Le difficoltà non colpiscono solo i malvagi, anzi, il Siracide ci ricorda che le tentazioni e le croci perseguitano soprattutto che si mette alla sequela del Signore, motivo per cui è necessario essere pronti alla tentazione: «Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione. Abbi un cuore retto e sii costante, non ti smarrire nel tempo della prova. Stai unito a lui senza separartene, perché tu sia esaltato nei tuoi ultimi giorni. Accetta quanto ti capita e sii paziente nelle vicende dolorose, perché l’oro si prova con il fuoco e gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore. Nelle malattie e nella povertà confida in lui. Affidati a lui ed egli ti aiuterà, raddrizza le tue vie e spera in lui»[2].
Gesù mostra con il suo insegnamento che non è lecito collegare in modo inscindibile le disgrazie al peccato personale. Il mistero dell’iniquità non può essere ridotto a un banale schema di causa-effetto. Tra i vari insegnamenti del rabbi di Nazareth, vediamo la sua riflessione sulla tragedia dei Galilei, «il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: “Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”»[3].
Gesù non nega il peso dell’iniquità, il male che dal primo peccato fino all’ultimo ha scombussolato e continua ad attanagliare la storia. Nondimeno, egli nega il nesso diretto, ingenuo e automatico tra il male fatto e il male subito. Il suo invito è alla conversione e non alla speculazione sul male. Questo stesso concetto è ribadito nell’episodio del cieco nato:
Passando, vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo»[4].



Con grande lucidità, Gesù mostra che la lettura dei segni dei tempi – un’arte di discernimento a cui egli stesso invita[5] – non è un processo superficiale o logico-deduttivo. Essa richiede il dono dello Spirito e l’ascolto del Signore che tutto scruta, tutto conosce e guarda ai segni dei tempi[6]. In una linea simile all’invito del Siracide, Gesù invita chi lo segue a fare bene i calcoli per vagliare la sua capacità della sequela[7] e a portare la propria croce dietro a lui[8].
Senza il minimo intento di aprire l’intricato capitolo della teodicea, faccio mie le conclusioni di Paul Ricœur nel suo piccolo saggio sul male[9]. Per cominciare, Ricœur mostra le lacune e le aporie di diversi approcci che pretendono di risolvere il problema del male. La sua critica parte dal modello mitico, passando per quello sapienziale (della retribuzione) e per lo stadio della teodicea, giungendo, infine, allo stadio della dialettica spezzata (essenzialmente in Karl Barth).
Al di là di tutti questi stadi speculativi, Ricœur si domanda alla fine: «La saggezza non consiste forse nel riconoscere il carattere aporetico del pensiero sul male, carattere aporetico conquistato dallo sforzo stesso per pensare di più e altrimenti?»[10]. Riconoscendo l’irrisolvibilità teorica del problema del male, il filosofo francese sposta la questione del male e del dolore (innocente) dalla dimensione speculativa, alla dimensione pratica e operativa. Al cuore della sua proposta in tre operazioni – pensare, agire, sentire – il male viene visto essenzialmente come «ciò che non dovrebbe essere» e, in quanto tale, come ciò che va combattuto.
La domanda fondamentale non è perché esiste il male, bensì che fare contro il male. Non è da dove viene il male, ma come arginare ed eliminare il male.
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Dio nel dolore
Dov’è Dio nel dolore? – è nel dolore! È nel dolore innocente.
È nella convinzione ostinata che il male non è la condizione di normalità, perché siamo fatti per il bene. Dio sta nel bene che facciamo.
Il bene è lo stato naturale dell’umanità, è il sogno di Dio sull’umanità e per l’umanità. Il male snatura l’uomo. Offusca, per così dire, il sogno di Dio.
Il bene è lo stato naturale anche del mondo perché il Bene, il Sommo Bene, ha creato il mondo e vide che era tob, cosa bella e buona[11].
Nel dolore Dio è presente nella ribellione al male, nell’iniziativa dei buoni, nel desiderio di risorgere, perché – nel cuore della morte – il Signore è il Dio della vita, il Dio dei uomini vivi e viventi[12].
Nel cuore del male, Dio è la rivolta del bene.
Nel silenzio della storia, Dio è la voce degli oppressi, è nella voce e nelle braccia di chi lotta contro l’oppressione. «La protesta contro la sofferenza di questo mondo non è altro che l’ardente brama di un mondo felice. […] Non accusiamo Dio per le sofferenze di questo mondo, ma nel nome di Dio protestiamo contro le sofferenze e contro coloro che ne sono causa»[13].
Nella protesta contro il male c’è la dimostrazione, la manifestazione del Bene. Il rifiuto del male mostra che il bene è più originario e più radicale.
La Scrittura insegna che Dio non salva dalla sofferenza, ma nella sofferenza. Dio non manipola la creazione eliminando in anticipo il male, non elimina la zizzania prima del raccolto finale[14], ma vince il male con il bene che i suoi eletti operano.
Nella croce, il dolore causato dall’odio inconsapevole dell’umano, diventa causa di salvezza attraverso cui l’amore consapevole si dona perdonando: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno»[15].
Il male perde, perché Cristo accetta di diventare preda, vittima immacolata, agnello condotto al macello senza aprire bocca[16]. Quel suo silenzio diventa la parola e la risposta più eloquente dinanzi al male.
Il male lo trafigge, ma non lo contamina. Tenta di giungere con la lancia fino al suo cuore, ma lì trova solo il culmine ostinato della donazione totale di sé, la luminosità del Bene assoluto ed estremo che lo stermina e lo annienta.
Dov’è Dio nel dolore? – è sulla croce. Lì, colui che ha accettato non tanto di morire, quanto di dare la vita[17], non ci salva dalla croce, ma nella croce. Non ci salva dal dolore, ma nel dolore. Il suo dolore dona senso al nostro. «Nella Croce di Cristo non solo si è compiuta la redenzione mediante la sofferenza, ma anche la stessa sofferenza umana è stata redenta»[18].
Il dolore dell’uomo è assunto in quello dell’«uomo dei dolori»[19]. Alla luce di Cristo, si legge e si chiarisce il mistero della sofferenza. Si chiarisce, per così dire, il punto di vista di Dio e l’atteggiamento di Dio dinanzi ai vari volti del male e della sofferenza. «Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori»[20].
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[1] Cf. Sal 1,5; 12,9; 12,1-9; 37,9.20.34; Sal 73,2-3.12.
[2] Sir 2,1-6.
[3] Lc 13,1-5.
[4] Gv 9,1-5.
[5] Cf. Mt 16,1-4.
[6] Cf. Sir 42,18.
[7] Cf. Lc 14,25-33
[8] Cf. Mt 16,24; Mc 8,34; Lc 9,23.
[9] Cf. P. Ricœur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana, Brescia 20075.
[10] P. Ricœur, Il male, 46.
[11] Cf. Gen 1.
[12] Cf. Mt 22,32; Ireneo di Lione, Contro le eresie IV, 20, 7.
[13] J. Moltmann, Il Dio vivente e la pienezza della vita, Queriniana, Brescia 2016, 104.
[14] Cf. Mt 13,29.
[15] Lc 23,34; cf. Giovanni Paolo II, Lettera apostolica “Salvifici doloris”, 11 febbraio 1984, nn. 13.18-23.
[16] Cf. Is 53,7.
[17] Cf. Gv 10,18
[18] Giovanni Paolo II, Lettera apostolica “Salvifici doloris”, 19.
[19] Is 53,3.
[20] Is 53,4.