Esiste un’affinità fra «fare il male» e «non opporsi al male» e consiste, secondo Zygmunt Bauman, nella «disperata negazione della colpa». La domanda che accomuna le due situazioni è questa: «Che cosa ne facciamo della nostra conoscenza del dolore degli altri e che cosa opera in noi questa conoscenza?».
Il nostro mondo attuale ci espone in modo massiccio alle sofferenze altrui e al contempo ci espone ad esse. L’informazione su male subìto nel mondo è subitaneo. Il dolore di tutti è disponibile a tutti dato che «l’accesso d’informazione ha smesso di avere bisogno persino della vicinanza a una presa telefonica». Non esistono più distanze. Per questo, secondo Bauman, siamo ormai tutti «spettatori». Il libretto Il secolo degli spettatori. Il dilemma globale della sofferenza umana edito dalle Edizioni Dehoniane di Bologna offre l’analisi di questo stato.
Lo stato di spettatori ci rende testimoni del dolore e della sofferenza, ma ci impone in un secondo luogo l’inevidente esigenza di «discolparci e di giustificarci». Si tratta, nel linguaggio di Karl Jaspers, non tanto di una colpa morale, ma di una «colpa metafisica». Quest’ultima esiste «ogni qual volta la solidarietà umana si arresta di colpo di fronte ai suoi limiti assoluti, di fatto infiniti». In modo simile, seppure utilizzando un linguaggio diverso, Emmanuel Lévinas afferma la solidarietà umana assoluta quale pietra angolare della moralità basata sul postulato della «incondizionalità della responsabilità umana per l’Altro».
Il dramma è che lo spettacolo della sofferenza mediatizzata è divenuto ormai, per utilizzare il lessico di Keith Tester, «una nuova tradizione» e, come tutte le cose tradizionali, perde il suo effetto di traumatizzarci, perché diventano «aproblematiche dalla routine quotidiana e dall’abitudine». A questo si aggiunge un altro effetto di tragica portata: i residenti della telecittà si stancano di queste novità e del loro ripetersi come se fossero una parte dello show surreale di reality. Più che suscitare sensibilità, la mediatizzazione del dolore porta con il tempo a una sua anestetizzazione. Ma questa insensibilità dell’abitudine non nega la gravità di un fatto che Bauman dipinge eloquentemente: «Anche se comodamente seduti al sicuro nei nostri soggiorni, guardiamo da vicino persone morire a causa della carestia o della crudeltà degli altri. Il nostro sé morale viene quotidianamente avvicinato e molestato, spronato, sfidato e sollecitato a reagire. Il problema è che dal momento in cui la circolazione delle informazioni sulla nostra e altrui condizione diviene sempre più efficace, non si può dire altrettanto della nostra capacità di azioni eticamente ispirate».

A questa situazione Bauman propone delle soluzione biografiche e delle soluzioni sistemiche che consistono primariamente nel riconoscere il male incalcolabile di cui l’umanità è capace e combatterlo senza paura e senza compromessi. Nelle parole del filosofo polacco: «Tocca agli spettatori lottare per trasformarsi in attori e rispondere a questa domanda, essere essi stessi la risposta».