Prof. Cheaib, ho letto la sua seconda lettera a Veronesi con l’attenzione che meritava e in ogni sua parte.
Premetto innanzi tutto che sono una grande estimatrice della buona scrittura e che, se mi permette un complimento “off topic”, lei potrebbe scrivere anche il bugiardino di un antibiotico e lo renderebbe poetico.
Detto ciò mi soffermo (e non certo per mancanza di interesse, quanto piuttosto perché sa quanto me che FB non si presta, oltre una certa misura, a trattare argomenti seri) sulla prima parte, quella così deliziosamente e intelligentemente ironica e che, a onor del vero, sembra più scritta da un uomo di scienza che da un teologo e uomo di fede.
La sua frase “sotto i ferri, la mia fiducia la pongo nella sua bravura, nella sua esperienza, nel suo amore laico” racchiude l’essenza di quello che manca a molte persone, quelle che, quando i medici salvano la vita di un loro caro, tirano un sospiro di sollievo e dicono “Grazie, Dio”, di fatto sminuendo il lavoro, lo studio e soprattutto quell’Amore Laico di cui lei parla, proprio invece di tanti, tantissimi medici e scienziati.
Dal mio punto di vista, peraltro, poco importa che una persona sia atea o credente quando agisce per il bene di altri, e per uscire un po’ dallo specifico del discorso e saltare verso la morale e la rettitudine, cito la professoressa Hack, che come lei sa era atea convinta e da sempre: “Le leggi morali non ce le ha date Dio, ma non per questo sono meno importanti”. Ops, chiedo scusa per la divagazione.
Ebbene, non mi dilungo ulteriormente (ho la tastiera fin troppo loquace!), concludo solo con un paragone, scherzoso ma non troppo.
Quando lei cita la risposta di Rabbi Moshe Leib alla domanda su chi abbia creato l’ateismo, mi viene in mente un film, una commedia leggera, ma – a guardarla bene – più profonda di quanto non sembri.
Nel film “Una settimana da Dio”, quel Dio meravigliosamente interpretato da un grandissimo Morgan Freeman a un certo punto dice a Jim Carrey: “Vuoi vedere un miracolo, figliolo? Sii il tuo miracolo”.

Grazie, prof. Cheaib, che l’Universo sia con lei
Chiara

Carissima Chiara,
Come non partire ringraziando per il grande complimento che ho subito segnalato a mia moglie per aggiungerlo al suo bagaglio per i giorni di magra. La ringrazio soprattutto per la civiltà con la quale porta avanti il confronto. Con un approccio così, mi invoglia non solo a rispondere, ma a cor-rispondere, a rispondere con il cuore!
Mi sembra di rintracciare tre punti che possono essere lo spazio di risonanza di una risposta (dato che il quarto, con la citazione della simpatica Hack, l’ha considerato lei stessa una divagazione).

1- Che la battuta a Veronesi sembra più scritta da un uomo di scienza che da un teologo e uomo di fede.

2- La citazione di “Una settimana da Dio”

3- E il saluto finale: “l’Universo sia con lei”

Dato che pure io ho la tastiera loquace, in questa “puntata” parlerò solo dei primi due punti

Tra fede e scienza

Per rispondere al primo punto faccio subito una premessa: se ringraziare Dio è a scapito della gratitudine verso il medico che fa’ l’operazione, concordo pienamente con lei che non è un atto di buona fede, ma un atto di mal-educazione.
Detto ciò, Le confido che prima di avere il colpo di genio della teologia, ero innamorato della biologia, volevo fare il biologo o qualcosa che doveva a che fare con la vita, le cellule, i cromosomi. Ma non è solo questo il motivo per cui ho parlato con quel tono rispettoso della scienza a Veronesi. Il riconoscimento della scienza fa parte della natura intima della visione credente del mondo.
Vede, in quel primo racconto carico di simboli della creazione di Genesi I, si parla che Dio abbia creato il mondo con la parola. E Le rivelo una cosa simpatica che forse non conosceva prima: l’abracadabra che utilizzano i maghi o i nostri bambini quando giocano, viene da lì. La parola, infatti, deriva da tre lemmi ebraici: abra ka dabra e significherebbe: “creo mentre parlo”. Cosa significa creare con la parola? – significa trascendenza, separazione, distinzione. Nel nostro caso significa mondanizzazione del mondo.
Per gli antichi, il mondo era “pieno di dèi” (panta plere theon). Il mondo veniva percepito come divino, e c’era così tanto traffico di divinità (al plurale) che l’uomo faceva fatica ad essere protagonista del proprio destino. Il concetto di libertà non c’era, almeno, non sempre. Pesava su tutti il fatum, il destino, quell’arco pesante che piega ogni volontà e creazione umana e la fa soccombere al tono malinconico dell’essere-per-la-morte. Non a caso, come valvola di sfogo culturale, fioriva la tragedia, per oggettivare ed esorcizzare – seppure per un po’ – il peso della realtà. O, alternativamente, la commedia per affrontare la realtà divagando (quindi, per non affrontarla).
Con la fede biblica si segna il deciso avvento della distinzione tra soprannaturale e naturale, tra Dio e il mondo. Come esemplificazione di questa visione mi viene in mente il Salmo 113 dove si legge: «I cieli sono i cieli del Signore, ma ha dato la terra ai figli dell'uomo».
Tornando sempre ai racconti di Genesi, la dimensione dell’impegno dell’uomo verso la terra è segnalato nel compito di lavorare la terra e di coltivarla. L’uomo è custode del creato, è responsabile diretto.
Lungo la Bibbia vediamo come l’uomo è richiamato a questa responsabilità. Gesù stesso se la prende con chi pensa che, pregando, si dispensa dall’agire (Mt 7,21). E Paolo dice chiaramente ai “troppo pii”: “chi non vuol lavorare non mangi” (2Tes 3,10).
Ecco, il Salmo di prima dice così: «Non i morti lodano il Signore … Ma noi, i viventi, benediciamo il Signore ora e sempre».
Dio non è lodato dal cadaverismo, ma dalla creatività umana. È celebre, almeno in ambito teologico, un’espressione di Ireneo di Lione: “La gloria di Dio è l’uomo vivente…”. La gloria di Dio si manifesta nell’uomo che coopera con Dio, che trasfigura questo mondo con il bene. E se diciamo “grazie a Dio”, dobbiamo dirlo perché ci ha creati così, ha creato una creatura-creativa e co-creatrice. Il grazie a Lui, non va in concorrenza con il grazie all’uomo, ma sgorga da questa stupenda creazione che è l’uomo.


Sii il tuo miracolo

Mi fa moltissimo piacere che Lei abbia citato “Bruce Almighty” (Una settimana da Dio). È uno dei film che mi piacciono tantissimo e ha ragione nel dire che è «più profondo di quanto sembri». Una piccola nota: il regista è di origini libanesi, come me, e quindi già mi sta simpatico. Si chiama Tom Shadyac ed è un fervente cattolico che fa ritiri in silenzio e pratica la Lectio divina, la lettura pregata della Parola di Dio. Quello che si dice nel film: “Vuoi vedere un miracolo, figliolo? Sii il tuo miracolo” è una visione profondamente cristiana (e – per carità – ammetto, non solo!!). Siamo chiamati a co-forgiare la Bellezza che è in noi.
In teologia, e sempre a partire dalla stupenda simbologia di Genesi, parliamo di “immagine” e “somiglianza”. Sono due termini che implicano rispettivamente: il dono e il compito (in tedesco suona ancora meglio: Gabe e Aufgabe). Implicano, in altri termini, il dato e la realizzazione; la materia prima e l’opera compiuta…
Tornando a “Una settimana da Dio”. Il film che prende tanto spunto dalla Bibbia e specie dal libro di Giobbe, presenta tra l’altro la parabola di quell’uomo racchiusa in due momenti paradigmatici: il primo, quando Bruce prende atto del potere che ha in mano, si mette sul tetto di un grattacieli e con fare spettacolare alla David Copperfield dice: “Io sono Bruce l’onnipotente. Sia fatta la mia volontà”.
Il film, come cammino di tras-formazione di Bruce (che deve fungere da parabola per noi), offre verso la fine il secondo momento diametralmente opposto, dove Bruce si accorge che il potere non è sufficiente per essere e per essere felici, e si mette in ginocchio, in mezzo alla strada e prega Dio piangendo: “Sia fatta la tua volontà”.
In tutto ciò, nella sua vita c’è quella presenza bella e discreta di una ragazza, che guarda caso si chiama: “Grace”. È la grazia di Dio. E cos’è questa grazia? – è proprio l’amore gratuito, sincero, capace di dono e di perdono. (Grace contrasta con l’amazzone dalla quale Bruce si lascia incantare prima). E, dopo l’incidente, quando viene spalmato sul suolo da un camion, è Grace che gli ridona il sangue, gli ridona la sua vita.
Mi viene un’immagine che mi ricorda i miei, i quali vedo molto di rado per motivi di distanza, ma verso i quali serbo una profonda gratitudine per quello che mi hanno trasmesso. Pur nella distanza, sono “graziosamente” presenti nella mia vita. Oltre al suo bellissimo complimento, tengo vicino al cuore alcuni complimenti che mi riscaldano il cuore. Uno dei quali è: “Quando senti tua mamma, ringraziala per me, sicuramente ciò sei ora è anche frutto di ciò che ti è stato dato”. Anzi, proprio ieri una persona mi ha scritto: «Porta i nostri ringraziamenti alla cara C. [mia moglie] perché, ne sono sicura, se tu fai il bene che fai è anche, e molto, grazie a lei (so che lo sai). Quindi ringraziala per noi». Questo “grazie” mi ha sminuito? Tutt’altro! Il contributo discreto, costante, tenero e affidabile di mia moglie è presente nel mio operato, anche se lei di teologia non capisce un’acca e nutre una seria allergia al suo linguaggio J
Credo che l’analogia, debole com’è, parli forte.
Sapevo che mi sarei dilungato, e avrei tanto da dire… il tempo e lo spazio stringono… quindi lasciamo l’Universo per il seguito. Vado a fare colazione con mio figlio, a fare un po’ di miracoli ordinari perché – come cerca di dire Dio (Freeman) a Bruce, quando ancora Bruce non era capace di ascoltare – «Dividere la minestra non è un miracolo, Bruce, è un trucchetto. Una madre sola che deve fare due lavori e che trova ancora il tempo di accompagnare il figlio a scuola di calcio, quello sì che è un vero miracolo. Un adolescente che dice di no alla droga e dice sì all'istruzione, questo è un miracolo. Le persone vogliono che faccia tutto io e non si rendono conto che sono loro ad avere il potere. Vuoi vedere un miracolo, figliolo? Sii il tuo miracolo».
p.s.: (Il miracolo sarebbe anche non dovergli cambiare la maglia a colazione ultimata).


Per ora, la saluto con tanta Grace ;)