Come è possibile conservare la necessaria unità di confessione della fede e insieme essere aperti al pluralismo teologico? Nel 1984 p. Jorge Mario Bergoglio S.I. — allora rettore del Colegio Máximo de San José presso San Miguel (Argentina), con le sue facoltà di Filosofia e Teologia — scrisse alcune riflessioni frutto di appunti di lettura di testi di Hans Urs von Balthasar e di Karl Lehmann, oggi cardinale. La Civiltà Cattolica ha recuperato e tradotto questo testo che affronta una domanda anche adesso di attualità. Il Corriere presenta oggi una anticipazione di questo ampio scritto(p. Antonio Spadaro) 


di p. Jorge Mario Bergoglio S.I.


Nella società moderna si può notare una crescente pluralizzazione della vita: specializzazione, divisione del lavoro, diversità di metodi. L’affluenza di metodi teologici diversi, del pluralismo interno alle discipline particolari, dei presupposti storici ed ermeneutici del contesto socioculturale configura, in teologia, il fenomeno del pluralismo, il quale non soltanto permette molte e diverse sintesi, ma anche, e di frequente, suggerisce una tentazione di carattere sincretistico: si fanno convivere e si mettono d’accordo conoscenze e postulati che derivano da ambiti diversi e finanche contrari. Su questa base si pone il problema di come si possa conservare la necessaria unità di confessione della fede accanto a un pluralismo coltivato con tanta profusione. La soluzione di questo problema è esposta anche a esiti inadeguati. Da una parte, c’è l’errore di voler ridurre tutto a un denominatore comune, cosa che, in fondo, implica che la pluralità venga considerata una realtà negativa. 
In questo caso, il primato assoluto delle forme di confessione della fede rispetto alla missione costante della loro traduzione sarebbe tale da generare uno spirito di reazione, di conformismo, di ghetto, di integrismo violento, sicché la teologia rinuncerebbe alla sua missione creativa. Se si seguisse questa opzione, verrebbe soppressa la necessaria differenza tra unità di confessione e legittima diversità di spiegazione teologica; ne risulterebbe un’unità morta, artificiale, opprimente e paralizzante rispetto all’impulso missionario. Le idee subentrano alle persone e si apre la strada all’ideologia. 
Dall’altra parte, il pluralismo non sembra così inoffensivo e neutrale come alcuni lo considerano a prima vista. Se infatti giungesse a non preoccuparsi dell’unità della fede, questo comporterebbe la rinuncia alla verità, l’accontentarsi di prospettive parziali e unilaterali. Appellarsi alla legittimità del pluralismo come una rivendicazione costante potrebbe equivalere semplicemente a un facile espediente: quando, infatti, non sussiste alcuna relazione con l’estraneo, ci si accomoda nel proprio mondo e nei propri interessi particolari, ci si immunizza, ci si isola e si evita la competenza. Il pluralismo risulta non meno nefasto quando dimentica i postulati scientifici e agisce, o reagisce, mosso esclusivamente da interessi sociali di carattere politico o di critica sistematica verso la Chiesa. Da questa posizione può derivare un atteggiamento sfrenato e capriccioso, una tirannia di forze che aspira soltanto a imporre il proprio punto di vista. Si scade nella chiusura e nella polarizzazione teologica. Resta dunque aperta la questione dei percorsi di un pluralismo adeguato, in cui la fede non cada nei lacci di un pluralismo smisurato, né di un becero conformismo. Qual è, dunque, la forma cristiana di unità? [...] 
Von Balthasar elabora due criteri sui quali egli incentrerà la sua riflessione circa la possibilità di un pluralismo ecclesiale: il criterio di prossimità e il criterio di massimalità. Il criterio di prossimità comporta che qualsiasi mistero resti tale anche dopo che sia stato rivelato. Il mistero non è «controllabile», come vorrebbe la fantasticheria di tutte le gnosi che — ansiose di controllarlo e, d’altra parte, dovendo mantenere in questo controllo un qualche aspetto misterico — traspongono il mistero nel controllo dei riti d’iniziazione. La stessa cosa accade sul piano umano della comprensione del prossimo: «L’intesa interpersonale, nella sua dialettica tra com-prendere e lasciare-libero [...] è senza dubbio il luogo privilegiato per la comprensione di quello che può essere la rivelazione divina in Gesù Cristo. [...] La comprensione della fede conosce innumerevoli gradi di profondità, il che non vuol dire che il mistero possa essere dissolto successivamente e mutato in concetti misteriosi. Da una simile illusione ci preserverà lo stesso nostro rapporto interpersonale: la conoscenza della sfera personale di un altro uomo ci introduce più profondamente negli spazi incondizionati della sua libertà; ma, invece di diminuire, essa cresce in noi, e noi cresciamo dentro di essa». 
Poiché qualsiasi prossimità è un avvicinamento di ciò che mi trascende, è essa stessa a liberare la capacità interpellante di qualunque testo. Non si tratta più della contrapposizione «o lettera o spirito», ma di un’apertura del cuore che giunge a scoprire lo Spirito che c’è in ogni testo rivelato. [...] Nel Vangelo, la prossimità per eccellenza, che è quella del Dio incarnato, si esprime nel genere della parabola: il buon samaritano. 
In questa parabola si coglie l’atteggiamento di «passare alla larga» [...]. Esso rende possibile confondere una persona che invoca nel suo stato di necessità con un impaccio qualsiasi: una confusione costruita dalla sufficienza. 
Vi si coglie anche l’altro atteggiamento, quello di colui che «si avvicina» mosso dalla misericordia, «si fa prossimo»; perché qualsiasi miseria ha qualcosa di pudico e si nasconde, e per comprenderla, è necessario «farsi prossimo» ad essa. La prossimità acquista la sua pienezza nella synkatabasis del Verbo, che si fa prossimo. Allora, l’ultima parola di Dio, il Verbo incarnato, trascende ormai l’ambito della rivelazione e dell’indottrinamento (lo presuppone) e si esplicita in partecipazione e comunione. 
Questo, più che parola e azione, vuol dire sofferenza, e pertanto l’«abbandono di Dio» fino alla discesa agli inferi. Nel criterio di prossimità, reso eminente in Gesù Cristo, c’è la realtà di Dio espressa sub contrario; e ciò tocca tutti gli organi e i gesti della Parola divina, tutta la Chiesa, compresa la riflessione teologica. La prossimità, condotta a questo grado che si esprime in Cristo, è istituzione, è logica teologica, ma non panteismo diffuso. 
L’altro criterio utilizzato da von Balthasar, la massimalità, nasce da qui, e costituisce un criterio universale e sufficiente nei limiti del quale il pluralismo teologico è ammissibile. [...] La massimalità dell’amore di Dio va accettata, ma così come si trova in Gesù Cristo: nella povertà e nell’umiliazione volute da Dio, che l’uomo non può respingere con il pretesto che si raffigurava la maestà divina in un altro modo, vale a dire come collocata esclusivamente nel cielo. In questo senso, possiamo dire che il criterio di massimalità si può intendere come l’eminente esplicitazione del criterio di prossimità. 
Per dirla in forma negativa, con parole dello stesso von Balthasar, «tutte le volte che nella spiegazione del mistero sembra che un aspetto risplenda in modo veramente razionale, e che quindi il carattere misterico (che indica la “radicale diversità” di Dio, la sua divinità, che lo distingue da tutto e da tutti) è stato parzialmente respinto, per dare libera espressione a una visione terrena che si può abbracciare con l’occhio umano, lì c’è eresia, o per lo meno si sono oltrepassati i limiti della legittima pluralità teologica». 
Allora il mistero è stato addomesticato, lo si è allontanato, lo si è minimizzato con un atto che non è intellectus fidei , ma piuttosto intellectus rationis humanae . Allora non ci sono più dogma o riflessione teologica, bensì idea e ideologia. Come dicevamo sopra, infatti, in questo tipo di ideologie plasmate attraverso la categorizzazione del mistero esiste una dimensione che diventa una sorta di caricatura del mistero, una dimensione misterica che lo avvicina a una gnosi. Resta aperta la problematica della relazione ideologia-gnosi, che tocca la questione del pluralismo. Essa rende possibile definire ogni cattivo pluralismo teologico come un monismo gnostico con pretese programmatiche. Riguardo a questo, i fondamentalismi attuali possono essere citati come esponenti del genere. 
Il criterio di massimalità, come espressione più compiuta del criterio di prossimità, renderà possibile un reale pluralismo teologico: infatti richiede un massimo di unità nel corpo di Cristo che è la Chiesa, insieme a un massimo di differenza tra i suoi membri. Il segno sarà l’unanimità nell’espressione plurale. 
Un cattivo approccio al pluralismo significa il contrario di questa verità. Implica che non siamo capaci di sopportare l’unità superiore, di cui — attraverso la sua missione e la sua grazia — noi siamo soltanto un frammento, sicché l’unità resta spostata dal tutto alla parte, e così cadiamo nelle ideologie proprie dell’uomo unidimensionale, che si erge a «signore» della verità. L’unità superiore implica che si sopportino tensioni e conflitti, i quali, secondo von Balthasar, possono mostrarsi come dissonanze, che tuttavia non vanno mai confuse con la cacofonia del monismo gnostico. Queste tensioni sono il «luogo bellico» del Vangelo, e l’unità superiore a cui aspiriamo — unità in cui si risolvono in maniera qualitativamente diversa le tensioni — è quella che ci costituisce in creature, in servi; è quella che ci dà un riferimento alla nostra identità. Essa, in definitiva, è appartenenza a un corpo al quale siamo chiamati, e ci trascende e ci consolida come credenti. 
[...] L’autentico pluralismo deve essere cosciente di essere parte, e mai il tutto. Il teologo deve fare tutto il possibile affinché la sua verità trovi posto nello spazio dell’unica Chiesa. D’altra parte, la comunione della Chiesa può essere garantita soltanto se essa si esprime chiaramente nella dinamica concreta della riflessione teologica. E qui entrano in gioco tre elementi decisivi: il riferimento costante alla Sacra Scrittura come fondamento; la conoscenza delle grandi tradizioni cristiane; la comprensione attuale dell’uomo e del mondo. 
[...] La tensione tra pluralità e unità non soltanto non si può risolvere accentuando una delle parti e spostando verso di essa il polo di sintesi, ma non si può risolvere nemmeno ecclesialmente, tentando una sorta di equilibrio tra le autonomie delle parzialità, la cui formalità unitiva risulterebbe il sincretismo. In questo caso, si otterrebbe soltanto una caricatura del vero pluralismo, e le opzioni ispirate nel contesto di un simile atteggiamento sincretistico potrebbero riuscire utili soltanto per il «momento», ma non per il «tempo», perché manca loro la capacità di apportare armonia a qualsiasi processo e a qualsiasi accrescimento. 
E in concreto, tali soluzioni mancano di armonia cristiana, in quanto, facendo del sincretismo su questo piano, si ottiene un compromesso di parzialità autonome secondo un equilibrio concordato, ma non si assume, né si esprime, quell’armonia cristiana che si raggiunge soltanto passando attraverso la croce. Sopravvive una sorta di asintoto che porta a tendere, senza raggiungerla, verso una federazione di autonomie che pretende di simboleggiare l’unità. L’unità di confessione ci invita a non diluire la ricchezza originale della parola di Dio nelle sue differenze, e a respingere la pretesa di fare noi le sintesi perfette e controllabili. 
Partecipare all’unità di confessione implica accettare di appartenere, e quindi assumere tutte le conseguenze dell’appartenenza che questo tipo di unità comporta, in noi, dal punto di vista ecclesiale. È tutta la Chiesa a possedere tutta la verità di fede, ed è possibile partecipare di questa totalità soltanto nella misura in cui l’appartenenza ecclesiale risulta totale. 
Corriere della Sera