Qualche tempo fa, mi sono incappato in una critica al cristianesimo che più o meno suonava così: «Il loro Dio è amore, ma solo se lo accogli, altrimenti sono guai. Finisce l'amore e inizia l'ira di Dio». Se per un istante volessimo dare credito a tale critica, possiamo chiederci: Che senso ha parlare di giudizio dopo aver detto quella che senza difficoltà potrebbe essere considerata l'espressione e la rivelazione la più bella del vangelo? (Giusto per essere sulla stessa lunghezza d'onda, mi sto referendo al versetto 16 che dice: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna»). La risposta è nei versetti seguenti: il giudizio non è qualcosa di aggiuntivo che Dio infligge, ma è la conseguenza della scelta dell'uomo che preferisce le tenebre alla luce, l'odio all'amore, la morte alla vita. Se ci fosse realmente una vita, un amore, una luce diversi da se stesso, Dio li darebbe volentieri. Il nodo, tutto. Il nodo della questione, è qui. Come umani ci sottovalutiamo, non riconosciamo la nostra “capienza”. Siamo capax Dei. Mi piace tradurre questa espressione così: abbiamo la capienza di accogliere e di godere di Dio. Rifiutarlo è rimanere con il serbatoio vuoto. È autocondannarci al vuoto, alle tenebre, alla solitudine.
#pregolaParola (Gv 3,16-21)
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».
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