In
quel tempo, Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i
suoi discepoli e una grande folla.
Quando
fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto,
unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con
lei.
Vedendola,
il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!».
Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse:
«Ragazzo, dico a te, àlzati!». Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed
egli lo restituì a sua madre.
Tutti
furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto
tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo».
Questa
fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione
circostante.
1Re
17,17-24 Sal 29 Gal 1,11-19
Lc 7,11-17
Leggendo
questo vangelo, la mente è andata subito a un poema di Charles Péguy sulla
seconda virtù teologale, la speranza. Senza spersonalizzare la pericope, ma i
tre protagonisti di questo vangelo – Gesù, la vedova e il figlio morto – mi
sono parsi come le tre virtù teologali in una normale situazione di fatica
spirituale. La fede invecchia, è “vedova” in questo mondo, perché viviamo
lontani coi sensi dall’Amato. La speranza vacilla e sembra morire perché «quel
che è facile e istintivo è disperare ed è la grande tentazione». Soltanto l’Amore,
l’amore in persona, può venire, toccare la bara e dire parole di risurrezione:
«dico a te, alzati». Strappa la speranza del cuore dalle grinfie della morte e
della disperazione e ridonando speranza alla fede la ringiovanisce. «La fede
che più amo, dice Dio, è la speranza». Ravviva la mia speranza Signore.