Lo scenario internazionale sta vivendo dei mutamenti che per alcuni esperti in geopolitica sono qualificabili come epocali. Gli eventi vanno dalla drammatica crisi dei migranti con numeri biblici di vittime nel mediterraneo ai grandi esodi verso l’Europa che mettono a dura prova la politica delle frontiere aperte; da un sovraffollamento di paesi ospitanti vicini alla rimozione delle sanzioni contro l’Iran e il flirting tra la potenza persica e gli Stati Uniti, considerati fino a non molto tempo fa “As-shaytan al-akbar” (Il grande diavolo); dalla lotta internazionale contro il sedicente stato islamico alle accuse russe contro Ankara e il suo patto segreto con i terroristi di Al-Baghdadi…
Ci siamo rivolti a Riccardo Cristiano, giornalista Rai, esperto in politica mediorientale e autore di diverse opere di approfondimento sui temi scottanti di quell’area.
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Il cittadino europeo medio, ma anche quello più avveduto, si trova dinanzi a uno scacchiere complesso dal quale si disinteresserebbe volentieri se lo stesso non gli suscitasse paura e se non bussasse alla sua porta con violenza e insistenza (pensiamo agli attentati di Parigi, ma non solo). La domanda nasce acerba, nutrita con tutta la paura dell’ignoto: dove ci troviamo? Cosa sta succedendo?
Ho la sgradevole sensazione che siamo tornati allo stesso punto che si viveva alla fine dell’impero ottomano quando si arrivò a concepire il genocidio degli armeni come frutto di una politica difensiva da parte degli unionisti. Nel libro Mezzanotte a Istanbul, Charles King riflette sulla formazione della Turchia Kemalista e non parla male degli unionisti, che recepiscono alcune istanze di modernità. Ma l’autore afferma che davanti alla paura degli imperi (l’impero russo e altri) arrivarono a concepire il genocidio come un sistema per togliere il possibile alleato del nemico. Scrive King: «I funzionari del giverno ottomano erano determinati a smascherare qualsiasi quinta colonna (o presunta tale) che vedesse con favore gli obiettivi territoriali degli Alleati. Nell'Anatolia orientale unità dell'esercito e milizie irregolari organizzarono la deportazione di interi villaggi armeni e di altri cristiani ritenuti potenzialmente fedeli alla Russia».
E come si applica questo ai nostri giorni?
La mia paura è che nel magma caotico di tanti fronti, si giunga a soluzione barbare che passano sotto silenzio, come il genocidio degli armeni. Anche oggi si può arrivare a concepire soluzioni finali di questo tipo. I turcomanni sono un problema? Diventano un soggetto candidato a un genocidio. La Turchia rischia di perdere la sua unità statuale, e si arriva a concepire il transfert delle persone. I cristiani lasciano la Turchia, i musulmani lasciano la Grecia. Di fatto, sono sradicate comunità tessute di faticosa vita comune. Il dato che unifica i due nazionalismo: l’ellenico e il turco è la religione. Ma questo non è stato fatto in nome della religione, ma in nome dei nazionalismi.
Quindi la sua lettura dei fatti contemporanei non è religiosa? Neppure nella lotta palese tra sciismo e sunnismo guidati rispettivamente da Iran e Arabia Saudita?
Come il genocidio è stato concepito usando la leva religiosa, ma al suo fondamento c’era più il dato nazionalistico, anche oggi ci troviamo davanti a due motori primari: il nazionalismo e l’imperialismo. Il nazionalismo sta lì e può arrivare a pensare in termini estremi, l’imperialismo può pensare di usare gli stessi sistemi estremi. La rivalità tra arabi e persiani è una rivalità imperiale che ha sempre guardato al mediterraneo. Bisogna adeguarsi all’imperialismo dell’uno e dell’altro o cercare una politica inclusiva che faccia emergere le stati e dia a ciascuno il suo.
Parlando in termini concreti, i sauditi si vogliono garantire facendosi portabandiera dell’imperialismo arabo. L’Iran vuole fare leva sul dato religioso per proporre la cultura imperialista iraniana.
Si sa bene che la distinzione tra politica e religione sono “valori” occidentali. L’homo islamicus è un uomo che non può – proprio perché sia il suo libro sacro sia il suo profeta – parlano di simultanea e reciproca confluenza tra “din wa dunya” (religione e mondo). Tenendo in mente ciò, il suo non è forse il punto di vista di un occidentale laico capace di distinguere tra dato religioso e dato politico?
Non posso giudicare a partire dalla mente dell’altro, giudico dalla mia cultura. E i dati della mia cultura mi insegnano che vivere insieme in alcune aree del mondo arabo è stato possibile, nonostante la differenza religiosa. In altre aree non è stato possibile per la chiusura impenetrabile di alcune aree. Pensi che fino a poco tempo fa non conoscevamo la configurazione di alcuni terreni dell’Arabia Saudita.
Le altre aree come Libano, Siria, Egitto sono simboli mondiali di convivenza. Difficile sì, ma fattibile.
Come si fa a costruire la cittadinanza della quale parla spesso nei suoi scritti?
Creando uno spazio e un’appartenenza comune sulla base della cittadinanza stessa. Se abbiamo una zona complessa dal punto di vista della sua composizione etnico culturale, questa la dobbiamo tutelare. Non si può fare come il trattato di Losanna, dove i libanesi cristiani sono stati destinati alle montagne, e quelli musulmani alla pianura.
Adesso facciamo la stessa scelta di Losanna? O cerchiamo di tutelare lo spazio come spazio aperto attraverso una politica inclusiva. Nel caso specifico del Libano, questo è stato il miracolo di Taef che, dopo 15 anni di guerra civile, ha sottolineato il bisogno di tutti di una vivibilità comune dell’unico Libano.
La creazione delle realtà compatte si creano con delle deportazioni. L’obiettivo allora qual è? Deportare decine di milioni di persone? Credo sia una soluzione deleteria che comporterebbe, se applicata, tanta sofferenza e tanto sangue.
Guardando allo scenario siriano (ma anche iracheno), cosa pensa della presenza occidentale e degli interventi dei big della scacchiera militare e politica? Quali sarebbero gli interventi auspicati?
Se mettiamo la Russia con le spalle al muro, la obblighiamo a intervenire in maniera estrema, e questo riguarda la politica russa e la Chiesa ortodossa. Ci possono essere quelli che parlano di guerra santa. Per non mettere nessuno con le spalle al muro, bisogno che tutti rinuncino a qualcosa in cambio di un legittimo tornaconto. L’occidente ha dimostrato di non sapere giocare questo ruolo, per diversi motivi che si faticherebbe a enumerare.
La diplomazia di Papa Francesco ha capito questo. Che non si può escludere nessuno. E non si tratta solo del Medioriente. Pensiamo all’Ucraina, all’Iran, ecc.
Il problema è convincerci che non è tifando per chi è più vicino alle nostre visioni che si aiuta a cambiare il problema. Si aiuta a risolvere il problema convincendosi che non ci sono scorciatoie. La Libia è stata una scorciatoia. In un posto in cui lo stato è cancellato da 50 anni, non posso fare solo un technical support, ma devo fare formazione a un vero e proprio nation building, incontrando i capi tribù aiutandoli a concepirsi come nazione.
Così anche l’intervento del 2003 in Iraq che volevo esportare la democrazia. Ha contribuito solo a spaccare il paese in fazioni e a causare milioni di morti.
Lei ha appena pubblicato un libro su papa Francesco dal titolo interessante: Bergoglio sfida globale. Come mai un esperto in politica si interessa di papa Francesco?   
Possiamo partire guardando al giubileo della misericordia, la cui geopolitica è il dialogo. Questo dialogo che nello scacchiere geopolitico mondiale nessuno sta cercando. Francesco ci invita a conoscere la forza del dialogo che è una forza che nessuno usa.
Questo non significa non fare mai ricorso alla forza. Il cardinal Parolin, segretario di Stato della Santa Sede giustamente invitava l’Onu a rispondere in maniera adeguata al pericolo dell’Isis. Se il mondo avesse saputo rispondere coinvolgendo al proprio interno il mondo arabo sunnita nel suo senso ampio, non avremmo avuto tante vittime quanto adesso.
Ma tornando a Francesco: l’unico che parla a questo mondo è il discorso sulla misericordia di Papa Francesco. Cercare di fare spazio all'altro affinché abbia un suo spazio vitale. Abbiamo una responsabilità verso il genere umano, di fermare le barbarie che stanno divorando milioni di persone. Vedo tanti giudizi sulla situazione, ma poca capacità di proporre risposte adeguato. L’unica cosa che vedo come fattibile è tagliare gli estremi e rimboccare la strada dell’inclusività.
A chi pregiudizialmente guarda al discorso del papa come buonista, o alla meglio, come evangelico, come risponde?
Parlo da quello che vedo. Il papa ha saputo arginare diverse questioni dalle conseguenze drammatiche. Un esempio è la questione ucraina, dove non c’è stato un atteggiamento di condanna che esclude uno dei giocatori. E stiamo parlando anche in una situazione dove i propri credenti sono anche coinvolti. Questo è un grande atto di responsabilità e di coraggio diplomatico.
La diplomazia vaticana non si è rassegnata allo status quo, ma ha invitato a una risoluzione giusta a favore di tutti i giocatori.

E nel discorso al corpo diplomatico di inizio anno il Papa non ha invitato a un secessionismo, ma a una integrazione dei cristiani nei propri paesi invitandoli a inserirsi nella propria società. Sono proposte politicamente credibili e fattibili. L’altra logica, che sembra più logica, quella della spada e della distruzione vale anche per chi la vuole applicare se viene uno più forte di lui. 



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