Questa domanda mi è stata fatta in varie sfumature e da più di una persona, spesso in seguito a conversazioni riguardo a libri spirituali belli. La situazione tipo è questa: si prende in mano un bel libro spirituale, lo si divora in un giorno (o in una notte), il libro lascia una gran bella sensazione, una carica di entusiasmo e di buoni propositi… ma questo effetto non tarda a diminuire e prima o poi ci si ritrova con la situazione di prima.
*
Siamo generalmente abituati a ricevere un bombardamento di testi da leggere a causa dei social media, delle email, ecc. Questo nuovo stile di vita ci obbliga alla lettura veloce e a non sostare su quanto leggiamo. Anzi, per esigenze professionali, hanno tanto successo le tecniche di fast reading (lettura veloce). Non le critico, anzi, in qualche modo ne faccio uso dato il mio lavoro che richiede tanta lettura.
C’è comunque un grande “però”. Ci sono certi scritti che non sono fatti per la lettura veloce. In questo genere di scritti rientrano i libri spirituali. La finalità principale di queste opere è il nutrimento della vita spirituale. Per questo – seppure possano contenere elementi in-formativi – la loro intenzione principale è tras-formativa. In parole semplici: questi libri sono scritti non per cambiarti la testa, ma per cambiarti il cuore e la vita intera.
La domanda che si pone allora riguarda il buon uso della lettura spirituale. E vorrei suddividere la risposta al volo in tre parti.

Al passo con il nostro Desiderio

Non posso che partire dal principio ignaziano che afferma che «non è il molto sapere che sazia e soddisfa l'anima ma il sentire e gustare le cose interiormente».  
Cosa capita quando leggiamo un libro spirituale? Henri Bergson ci dice che quando leggiamo i grandi mistici o i santi e ci sentiamo trasportati, è indizio che dentro di noi c’è un mistico che vuole venire alla luce. L’inganno, però, è che questa spinta la accarezziamo en passant, senza soffermarci lì per farci trascinare come la sposa del Cantico: «attirami dietro a te, corriamo». Non lasciando che il desiderio faccia il suo lavoro concreto (che è fondamentalmente quello di muovere la volontà all’azione pratica e contestualizzata), lo rendiamo un wishful thinking, un «pio desiderio» sdolcinato e inefficace.
Per questo il consiglio di Ignazio di Loyola, che si applica sia alla preghiera sia alla lettura spirituale, è di fondamentale importanza. È un momento di sincronizzazione personale dove il lettore che legge e impara sincronizza se stesso con i propri desideri suscitati dalla lettura e contemporaneamente con l’attualità della propria vita. È una triplice sincronizzazione tra mentre, affetti e volontà. Questi tre portano a una prassi spirituale sostenuta e sostenibile.
Giovanni della Croce parla dell’ingordigia spirituale. L’avidità di racimolare contenuti spirituali senza digerirli è uno degli aspetti di questo vizio di gola spirituale. È un eccesso di “calorie” che non viene canalizzato nella vita concreta e che piuttosto che renderci più calorosi e zelanti, ci porta all’abbiocco spirituale e a una specie di noia tipica di chi confonde la vita spirituale con il tenersi informato sulle cose spirituali.
Qui vale l’affermazione di Rabelais: «scienza senza coscienza è una rovina dell’anima».

La lettura come specchio

La seconda immagine che mi piace evocare è quella dello specchio. Un testo spirituale degno del nome non mi rivela solo qualcosa che non so, ma mi rivela qualcosa di chi sono, parla della mia vita e della mia verità. Si propone come specchio profetico – quasi come la parabola del profeta Natan al re Davide (cf. 2Sam 12) – per aiutarmi a identificare la mia situazione vitale e a scoprire dove sono arrivato nel cammino della mia vita.
Il testo che ospito nella mia mente e nel mio tempo, mi ospita in qualche modo (mi deve ospitare, altrimenti non è un testo per me, almeno non per una mia lettura spirituale di adesso). Così interpreto il testo perché mi interpreta e ci sveliamo a vicenda.
A questo riguardo, Paul Ricoeur ci invita a fare una riflessione molto interessante. Egli prende le distanze dalla tradizione del Cogito di Descartes secondo la quale noi conosciamo noi stessi attraverso un’intuizione immediata. Teoricamente è così, concretamente no. Noi conosciamo noi stessi nel confronto, nel dialogo e non nel monologo. Nelle parole di Ricoeur: «Noi non ci comprendiamo che attraverso i segni di umanità depositati nelle opere di cultura… Comprendere, pertanto, è comprendersi di fronte a un testo». Il testo diventa uno specchio rivelante di chi legge.
L’incontro con il testo non rimane allora un momento in cui io, come soggetto, guardo un oggetto, ma diventa un evento intersoggettivo. Non solo scruto il testo, ma mi lascio scrutare e interpellare dalla sua alterità. È un momento di «addomesticamento» che è un processo che richiede tempo, pazienza, sedimentazione e tanta amicizia (la volpe del Piccolo principe docet).

Il libro e il Volto

La svolta reale della lettura spirituale è quando l’incontro con l’alterità diventa incontro con l’Altro, incontro con il Volto di Dio, quando mi fermo dal voltare le pagine perché ho incrociato il Volto. Nella lettura spirituale dobbiamo essere coscienti che cerchiamo l’Amato e quando percepiamo un momento di presenza dobbiamo fermarci, chiudere il libro e aprire il cuore in preghiera.

Un autore spirituale del Seicento, Alfonso Rodriguez, offre un’immagine simpatica, quella dei passeri che si abbeverano. Proprio come quando il passero si riempie la bocca e poi alza la testa per mandare giù ciò che ha bevuto, così l’anima deve abbeverarsi ai testi spirituali, e quando ha quello che le basta, deve elevare l’anima in preghiera.





Puoi anche ascoltare una registrazione che tratta dello stesso argomento da un'altra prospettiva su questo link