A volte parliamo di Dio come se fosse un prodotto da scoprire o un luogo da visitare. I grandi mistici hanno sempre intuito la presenza di Dio come più intima a noi di noi stessi (sant’Agostino). Alcuni di loro parlano di Dio che dimora nel «fondo dell’anima» (Taulero). Di Dio non bisogna parlare come la scoperta dell’isola che non c’è, ma aiutare le persone a ri-familiarizzarsi con un assopito sentore profondo. Testimonium Dei in nobis habemus (Abbiamo in noi stessi un’attestazione di Dio).
È da evidenziare per contrasto che la percezione di Dio non è una sensazione immediata o scontata. Mi viene in mente la metafora della luce. La luce è la nostra mediatrice visiva. Grazie ad essa vediamo le cose. Ma il paradosso grande è questo: la luce stessa noi la vediamo solo quando si infrange sulle cose (o sulla nostra retina). Un esempio? Se la luce entra da una finestra ed esce dall’altra senza infrangersi contro niente, non te ne accorgi. Ti accorgi della luce, ad esempio, dalle particelle di polvere nell’aria.
Oggi vogliamo esplorare un geniale contributo del grande convertito John Henry Newman che ci parla di questo intuitivo passaggio dalla coscienza a Dio.
Innanzitutto, Newman parte da una critica al famoso cogito ergo sum – penso dunque sono/esisto – di René Descartes. Newman rimprovera a Cartesio il dubbio su se stessi. È un processo impossibile. Non possiamo giungere alla nostra esistenza attraverso un sillogismo. È un’intuizione primordiale. Con evidente ironia Newman scrive: «Descartes si è macchiato di permanente ridicolo quando ha tentato di dimostrare matematicamente la propria esistenza a se stesso; quando ha tentato, cioè, di applicare la prova dimostrativa a una proposizione che può essere provata soltanto con ciò che i metafisici chiamano intuizione».
Newman parte dall’irrinunciabilità della coscienza dell’io come esistente in qualsiasi atto o pensiero. In ogni operazione che facciamo (pensare, parlare, agire…) c’è un unico soggetto indispensabile: l’io. Ogni atto di coscienza è primariamente e immediatamente un atto di coscienza di sé e dell’oggettività della propria esistenza. È – per usare un’espressione di Tertulliano – un testimonium animae (una testimonianza/attestazione dell’anima).
Per dirla brevemente: la certezza della mia esistenza non viene da un’argomentazione. È una certezza intuitiva. Non posso fare un atto di fede cieca nella mia esistenza! La mia coscienza e autocoscienza sono più vicine a me di qualsiasi altro strumento di conoscenza.
E come si passa all’intuizione di Dio?
Newman considera la coscienza, sia come senso morale sia come senso metafisico. La congiunzione fra questi due aspetti gli permette di formulare ciò che l’allora Joseph Card. Ratzinger chiama il Gewissensweg – via della coscienza – di Newman.
Per rimanere nella linea del linguaggio di Tertulliano: lo stesso testimonium animae si rivela come testimonium Dei. Newman cerca di far vedere come nell’intimo dell’immanenza personale c’è la presenza di un necessario comandamento quale eco della trascendenza sovrapersonale. La coscienza scopre di essere non autrice, ma testimone e depositaria di un comandamento interiore.
Il ragionamento di Newman è degno di un filosofo personalista, ma cerchiamo di semplificarlo. Innanzitutto, e sulla scia di Tommaso, Newman parla della coscienza come «il giudizio pratico, o dettato dalla ragione, col quale decidiamo quello che qui e ora, va fatto perché bene o evitato perché male». La coscienza si configura come fenomeno estatico. Non esiste auto-coscienza e coscienza che non vada al di là di se stessa, costringendo l’uomo a uscire da sé, a salire al di sopra di sé cercando nell’altezza e nella profondità Colui del quale essa rappresenta la voce.
Qualche immagine rende ancora meglio l’idea. Newman afferma che «come la luce del sole implica che il sole sia nel cielo, benché possiamo non vederlo» e «come un bussare alla nostra porta di notte implica la presenza di qualcuno fuori nel buio che chiede di entrare» così anche nella nostra coscienza percepiamo un’eco, quell’eco rimanda a una Parola, la quale rimanda a «un Maestro invisibile».
«La strana e fastidiosa perentorietà» della coscienza sono indizio del suo riferimento a un’alterità. «La coscienza – spiega Newman – implica una relazione fra l’anima e qualcosa di esteriore, che sia, inoltre, ad essa superiore; una relazione con un’eccellenza che essa non possiede, e con un tribunale sul quale non ha alcun potere». Per questo egli osa dire che la coscienza è «la grande maestra interiore di religione» ed è «l’originario vicario di Cristo, profetica nelle sue parole, regale nella sua perentorietà, sacerdotale nelle sue benedizioni e nei suoi anatemi». (faccio notare i tria munera).
 Per chiudere questa semplice presentazione, lascio la parola allo stesso Newman che nel romanzo Callista mette sulla bocca di quella ragazzina analfabeta il nucleo della sua riflessione sulla coscienza quale «eco dello Spirito». Callista risponde a un filosofo pagano che deride le sue intuizioni di un Dio personale così:

«Sento quel Dio dentro il mio cuore. Mi sento alla Sua presenza. Egli mi dice: Fa’ questo, non fare quello. Potete dirmi che questa prescrizione è solo una legge della mia natura, come lo sono il gioire o il rattristarsi. Non riesco a capirlo. No, è l’eco di una persona che mi parla. Niente mi convincerà che alla fine non provenga da una persona a me esterna. Essa porta con sé la prova della sua origine divina. La mia natura prova verso di esso un sentimento come verso una persona. Quando le obbedisco, mi sento soddisfatto; quando le disobbedisco, mi sento afflitto, - proprio come ciò che sento nell’accontentare o nell’offendere un amico riverito… l’eco implica una voce; la voce rimanda a una persona che parli. Quella persona che parla, io amo e temo».