«Si sta come / d’autunno / sugli alberi /le foglie». Questi famosissimi versi di Giuseppe Ungaretti sono solo una delle tante testimonianze della percezione innegabile della gracilità della nostra esistenza umana. Albert Einstein, in una lettera del 1926, scrive in termini simili: «I nostri corpi non sono che le foglie appassite sull’albero della vita».
Il pensiero della fine – generalmente così assente a Hollywood – non lo è nell’esperienza quotidiana contraddistinta da diverse morti e dall’improvvisa morte finale. Il pensiero della fine non era assente neppure nel pensiero dei grandi filosofi dell’antichità. Anzi, Seneca scriveva che «nulla è certo se non la morte» e ancora: «Ogni giorno moriamo (cotidie morimur); infatti ogni giorno siamo privati di qualche parte della vita e, anche quando cresciamo, la vita va diminuendo. Abbiamo perduto l’infanzia, poi la fanciullezza, poi l’adolescenza. Tutto il tempo trascorso fino a ieri è andato perduto; anche la giornata che oggi viviamo la dividiamo con la morte».
La morte è presente, onnipresente, ma sembra non essere mai la benvenuta. È come se la morte fosse un incidente di cammino, il cammino di una vita originariamente destinata ad altro e oltre. Il pensiero della morte è stato generalmente accompagnato, nella storia del pensiero e dell’esperienza umana, dal pensiero della sopravvivenza e dell’immortalità.
Il ricchissimo libro di Romano penna, Qualeimmortalità? Tipologie di sopravvivenza e origini cristiane, edito dalla San Paolo, dedica un documentato studio a questo aspetto dell’esperienza umana. L’a., partendo dal principio speranza, analizza le diverse istanze di sopravvivenza, partendo da quella elementare che non credeva nell’immortalità dell’anima, e che vedeva nella discendenza e nella fama i due modi per sopravvivere al destino che incombe su ogni umano: la morte.
L’analisi poi prosegue verso forme più particolareggiate di sopravvivenza presenti in ambito greco-romano e in ambito giudaico quali il rapimento al cielo, o in altri ambiti culturali come le religioni orientali quali la reincarnazione fino a giungere al ragionamento primariamente filosofico e poi religioso sull’immortalità dell’anima.



Il passaggio alla tradizione biblica mostra la centralità della dimensione fisica dell’essere umano e apre il discorso alla risurrezione corporea. L’autore offre un’attenta analisi della evoluzione del concetto di immortalità nell’ottica biblica, mostrando come è cresciuta mano a mano la coscienza in una sopravvivenza dopo questa vita nella carne. Tale coscienza si potrebbe riassumere nelle parole del Talmud: «Se quelli che non esistevano vengono in vita, quanto più è ragionevole che rivivono coloro che già hanno vissuto».
Penna chiarisce che la visione di una risurrezione corporea è generata e, allo stesso tempo, manifesta una visione antropologica diversa che contraddistingue la fede giudeo-cristiana. Nell’ottica biblica, infatti, l’uomo è inscindibilmente anima, corpo e spirito, e parlare di una sopravvivenza dell’uomo che prescinda da questa sua realtà, implicherebbe una negazione o una diminuzione delle sue componenti identitarie.
Il discorso della risurrezione corporea, evidentemente, si apre alla questione della risurrezione di Cristo, posta dinanzi a noi nella sua unicità e paradigmaticità.

Il libro si chiude con un capitolo dedicato all’intreccio cristiano tra futuro e presente e mostra come biblicamente ed esistentivamente la visione cristiana coniughi la sua fede nella vita futura con il suo impegno nella vita presente. «Per il cristiano – scrive Penna – l’eternità e, quindi, l’immortalità non comincia dopo la morte fisica, ma qui e ora, nel pur precario presente storico».
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