pietà - Michelangelo

«Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede… Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati» (1Cor 15,14.17). Il concetto ripetuto due volte nella prima lettera ai Corinzi di San Paolo con due aggettivi diversi ma complementari manifesta la centralità della risurrezione nella confessione di fede. Il primo aggettivo è kenos che significa «vuoto», «senza contenuto». Il secondo aggettivo è mataios e significa «vano» ma anche «falso».
La fede pasquale annunciata da Paolo trovava il suo perno fondamentale nella risurrezione . Sorprende che per secoli la soteriologia cristiana, almeno nella sua tradizione occidentale, abbia concentrato tutto il peso sulla morte di Cristo, facendo della risurrezione soltanto «il lieto fine di un dramma», o «un merito acquisito dell’obbedienza del Crocifisso». Nel suo libro La risurrezione di Gesù, Gérard Rossé dedica l’attenzione alla considerazione del nucleo confessionale della prima comunità cristiana: «Dio ha risuscitato Gesù dai morti». L’impresa dell’autore comincia con un capitolo in cui considera la credenza in una risurrezione nell’Antico Oriente, per poi presentare la fede nella risurrezione nel giudaismo postesilico. La fede in una risurrezione dopo la morte nasce in Israele in tempi piuttosto recenti, poco prima dell’era cristiana, e rapidamente si diffonde nella coscienza del popolo punto notiamo infatti nel Nuovo Testamento che non tutte le fazioni giudaiche credevano alla risurrezione dei morti. I sadducei ad esempio la rifiutavano.
Il secondo capitolo dell’opera si concentra sull'analisi di due fondamentali testi Paolini: 1Cor 15 e 2Cor 5. In essi Paolo manifesta come la risurrezione di Gesù non costituisce un fatto isolato, ma ha in sé una dimensione universale che riguarda ogni uomo. «Essa inaugura una dinamica tesa verso un compimento, la piena realizzazione del disegno di Dio, che comporta il superamento della morte e implica, come conseguenza, la risurrezione dei morti e la piena sovranità di Dio, già in atto nella sovranità attuale di Cristo» (24)
Il terzo capitolo considera alcune caratteristiche di Gesù risorto ed è seguito da un quarto capitolo che analizza la visione antropologica dell’ebraismo in contrasto con quella ellenistica. Quest’analisi mostra come nel pensiero ebraico l'uomo non è considerato in modo dualista.  I termini tradotti con corpo, anima, carne, Spirito, non indicano mai nella Bibbia delle parti dell’uomo, ma dei modi di essere dell’unico e intero essere umano. L’uomo come essere spirituale non può essere disgiunto dalla sua realtà corporea. La dottrina della risurrezione della carne implica la redenzione di tutto l’uomo, nella sua stessa corporeità, animata dall’amore che lo rende conforme a Cristo.  Nella risurrezione corporale è implicato un compimento dell’identità dell’uomo.




I capitoli quinto e sesto considerano la questione della verità o, più precisamente, la verificabilità della risurrezione. Premettendo che la risurrezione di Gesù è un evento che appartiene all’ordine dell’eschaton, della metà storia, diversi sforzi teologici sono stati fatti per esprimerne un riscontro anche storico. Tale sforzo si era reso necessario dopo la critica razionalista effettuata da Reimarus, Strauss, Renan e altri.
Uno dei primi punti che fanno riflettere sulla realtà storica della risurrezione è la testimonianza apostolica. Le testimonianze, infatti, parlano di una fede nata senza alcuna preparazione e che ha in sé qualcosa di paradossale e di inatteso non avendo né precedenti storici né modelli letterari.
L’autore argomenta che se Gesù fosse morto sazio di giorni, o anche ucciso dai Romani a causa della sua fedeltà alla legge di Dio, sarebbe stato facile per i suoi discepoli canonizzare lo e fare di lui un martire o un santo. Ma la morte ignominiosa di Gesù toglie ogni prospettiva di facile esaltazione della sua figura. La sua morte è la fine di ogni speranza, il crollo di tutto, soprattutto perché è la morte di colui che aveva suscitato speranze messianiche. Dinanzi a una morte così, non ci sarebbe un futuro da immaginare, ma solo un passato da dimenticare. Scrive Servin: «È necessario che si sia prodotto un evento di una forza considerevole. Per lo storico questo evento non può essere colto: esso si vede soltanto nei suoi effetti». Kessler, da parte sua, spiega che «tutti i tentativi di spiegare la comparsa dell’affermazione della risurrezione senza esperienze pasquali straordinarie (apparizioni) è soltanto in base a dati veterotestamentari giudaici e Gesù antico, oppure soltanto in base a processi psichici o riflessivi di rielaborazione dei discepoli (visioni psicogene; conversione o maturazione progressiva; riflessione; deduzione da idee a portata di mano eventualmente articolate anche da Gesù; formazione del consenso), contrastano radicalmente è decisamente con il momento virgola centrale per il NT, dell’automanifestazione non deducibile del Risorto».
L’analisi di Rossé si concentra sulla questione della tomba vuota e sui racconti delle apparizioni del Risorto. E nel contesto delle apparizioni, l’autore riprende nell’ultimo capitolo la testimonianza di Paolo che è l’unico testimone diretto di un’apparizione Pasquale del Risorto, l’unico che può parlare in prima persona, l’unico di cui abbiamo direttamente l’esperienza trasmessa senza mediatori. Notiamo che Paolo è pudico riguardo alla propria esperienza ne parla nella lettera ai Galati, ma in una frase subordinata, la cui intenzione è quella di manifestare la gratuità dell’elezione di Dio che produce in lui il cambiamento radicale. Anche nella lettera ai Filippesi, Paolo parla di questa manifestazione del Risorto attraverso la quale il Crocifisso-Risorto si fa conoscere e riconoscere da lui. Tale «conoscere» non è intellettuale, ma comunionale. Paolo parla di «essere stato afferrato». L’incontro ha cambiato radicalmente il suo pensiero e la sua esistenza. Altre testimonianze sono riportate nella prima e nella seconda lettera ai Corinzi.
Tutte queste manifestazioni si aggiungono al bagaglio argomentativo a favore della storicità della risurrezione. Osserva Kessler infatti che «solo perché Dio gli rivela il crocifisso come risorto, come il Figlio dell’uomo innalzato e come il Figlio di Dio intronizzato, e solo perché quest’ultimo gli va incontro come tale, l’irreprensibile fariseo Paolo si dà per vinto».