In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli:
«Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”.
L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”.
Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”.
Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce».

Rm 15,14-21   Sal 97   Lc 16,1-8


Cosa loda il padrone nell’amministratore disonesto? Certamente non la disonestà, ma la chiaroveggenza. La morale dell’apparentemente scandalosa parabola di Gesù è che con Dio non riusciremo mai a pareggiare – «Se consideri le colpe, Signore, Signore, chi ti può resistere?» – ma se amiamo chi ci è affidato, il nostro amore finito acquisterà un valore infinito per colui che si è identificato con la povertà di ognuno di noi. È quest’amore che copre una moltitudine di peccati.