In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo:
«Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.
E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».
2Cr 36,14-16.19-23   Sal 136   Ef 2,4-10   Gv 3,14-21

L’analogia utilizzata da Gesù nel suo discorso con Nicodemo per parlare di giudizio è una grande scuola di libertà e responsabilità. Mentre pensiamo a volte che il giudizio di Dio sia un’istanza esteriore che piomba inopportunamente sulle nostre scelte, Gesù utilizza l’immagine della luce per mettere in luce (appunto) che il giudizio è una manifestazione della bontà o della vacuità del nostro vivere e del nostro operare. Il male che facciamo, la chiusura all’Amore che ostinatamente abbracciamo è già una condanna perché il nostro cuore è fatto per lui e solo in lui riposa. Chi si chiude all’amore diventa un inferno per sé. A ragione scrive Dostoevskij: «Mi domando: che cos’è l’inferno? E rispondo: l’incapacità di amare». Con il vangelo di oggi dobbiamo aggiungere: è anche l’incapacità di lasciarsi amare con quell’amore di Dio che ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito.