Questo breve articolo - parso su La Croce Quotidiano venerdì 20/02/15 - è una piccola risonanza su un articolo di Jorge Mario Bergoglio del 1984. L'articolo è consultabile su questo link.

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La teologia non è il mestiere di addomesticare la parola di Dio, ma è il ministero che permette all’uomo un paradossale squarcio di comprensibilità nell’Incomprensibile, uno squarcio aperto dalla stessa reciproca dimora del Mistero nell’uomo e dell’uomo nel Mistero. L’esperienza del Mistero cristiano e l’espressione dello Stesso implicano pluralità: una pluralità che nasce dalla diversità di esperienze, ma anche dalle variegate sfumature con cui l’uomo stesso incontra, percepisce concepisce e narra l’impatto con il Dio di Gesù Cristo in varie fasi del suo cammino spirituale e teologico.
Sulla falsariga della riflessione fatta nel 1984 e firmata dall’allora gesuita Jorge Maria Bergoglio (proposta al lettore italiano dalla Civiltà Cattolica), possiamo discernere il necessario equilibrio tra pluralità e unità, dimensioni imprescindibili e inseparabili per l’espressione del Depositum fidei.
Che il pluralismo sia di casa nella teologia cristiana, ne sono un’evidente espressione i quattro vangeli, nonché le varie teologie che attraversano i 27 libri del Nuovo Testamento. E che questo pluralismo non sia semplicemente tollerato, ma sostenuto e difeso, lo vediamo nella non canonizzazione della fusione e omogeneizzazione proposta da Taziano nel suo Diatessaron. Il canone neotestamentario ha mantenuto il plurale. Possiamo dire che l’abbia custodito e ciò proprio perché il plurale custodisce in modo più degno il dirsi dell’ineffabile Mysterion.
Questo pluralismo legittimo e fecondo custodisce quello che Bergoglio chiama la «missione creativa» della teologia. È il solco fecondo di ciò che il Cardinale Ratzinger chiamava «interculturazione», dato che «la teologia – come ricorda Bernard Lonergan (un confratello canadese di Bergoglio) – media tra una matrice culturale e il significato e il ruolo della religione in quella matrice». In altre parole, il pluralismo salva la teologia dall’essere una mera ruminazione decontestualizzata e – perciò – non contestualizzabile del Evangelio vivo. In altre parole, una «Denzingertheologie» come la metteva quasi ironicamente Y.-M. Congar sarebbe più un tradire che un tradere della fede.
Se ridurre «tutto a un denominatore comune» costituisce un errore, rimane tuttavia necessario discernere quale volto di pluralismo concorra all’espressione dell’unità della fede piuttosto che alla sua dispersione. Si pone, in altri termini, il problema di un pluralismo che non sia frutto di annessionismo ingenuo o fautore di sincretismo eretico.
L’eresia è cacofonica. Esprime l’orgoglio del finito che si erge come assoluto, del frammento che vuole canonizzarsi come tutto. La verità, invece, è sinfonica ed esprime la condiscendenza (synkatabasis) del Verbo il quale pur essendo «Tutto» si è manifestato «nel frammento». Quali sono i parametri entro cui si gioca quest’arte che richiama la tri-unità del Mistero divino? A distanza di anni rimangono attuali le conclusioni di Hans Urs von Balthasar riprese da Bergoglio: prossimità e massimalità.

La prossimità acquista la sua pienezza nella (e dalla) synkatabasis del Verbo, che si fa prossimo. La massimalità, invece, ribadisce la non addomesticabilità del Mistero. «L’autentico pluralismo – scrive ancora Bergoglio – deve essere cosciente di essere parte, e mai il tutto. Il teologo deve fare tutto il possibile affinché la sua verità trovi posto nello spazio dell’unica Chiesa».