In quel tempo, venne a Gesù un lebbroso: lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi guarirmi!».
Mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, guarisci!».
Subito la lebbra scomparve ed egli guarì.
E, ammonendolo severamente, lo rimandò e gli disse:
«Guarda di non dir niente a nessuno, ma và, presentati al sacerdote, e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato, a testimonianza per loro».
Ma quegli, allontanatosi, cominciò a proclamare e a divulgare il fatto, al punto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti, e venivano a lui da ogni parte.

Lv 13,1-2.44-46 Salmi 31 1Cor 10,31-11,1 Mc 1,40-45


Peggiore del subire le ingiustizie della vita è venire considerati responsabili della propria condizione subita. E peggio ancora è sentirsi responsabili e sopraffatti dalle proprie disgrazie. La situazione del lebbroso del vangelo ci offre un quadro che evoca questa situazione. Quell’uomo che non ha più niente da perdere, trasgredisce la legge e si butta ai piedi di Colui che è il fine di ogni legge. La compassione di Gesù lo rende degno del suo patire. La condiscendenza del tocco di Gesù lo eleva di nuovo alla sua dignità di creatura a immagine e somiglianza di Dio. È qui che avviene il miracolo: quello che doveva declamare: “impuro, impuro”, adesso diventa annunciatore dell’amore che l’ha purificato. Il verbo usato «kerussein» è proprio quello dell’annuncio, dell’evangelizzazione. Non poteva fare altrimenti: chi è guarito dalla lebbra dell’isolamento del peccato, non può che annunciare, non può che diventare annuncio.