La fede si trasmette più per generazione che per indottrinamento. Questo perché la parola della vita è molto più eloquente e convincente della dialettica discorsiva.
Ad ognuno di noi è affidato un numero di anime da generare alla vita con e in Cristo. Se manchiamo a questo impegno, ci saranno boccioli che non fioriranno perché non li abbiamo avvolti del calore di uno sguardo, dall’irradiazione di un sorriso, dalla cura di un silenzio che ascolta. Saremmo, in un certo senso, fautori di un “aborto” spirituale.
Da qui la pregnanza della figura del «vescovo» che la prima lettura ci consegna, quale figura fondamentalmente testimoniale. La parola greca epi-skopos indica infatti colui che «veglia sopra». Questo vegliare sopra si manifesta in una vita che emana il profumo della santità di Dio. Sì, il discorso di Paolo si riferisce ai vescovi incaricati del ministero di guida, ma abbiamo per certi versi un «episcopato battesimale» che consiste nel prenderci cura a vicenda gli uni degli altri. Per questo motivo l’integrità richiesta dal vescovo è richiesta ad ogni discepolo di Gesù.
Il Vangelo ci mostra che la forma più immediata ed elementare di prendersi cura e di essere responsabili degli altri è testimoniare. Il «guai» rivolto a chi scandalizza, ha il rovescio della medaglia nella beatitudine espressa da san Giacomo: «Chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore, salverà la sua anima dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati».

L’Apocalisse ci insegna che Cristo stesso è «il Testimone fedele», chiediamo a lui di aumentare la nostra fede, non tanto per spostare le montagne e creare casini ai geografi, ma per «salire la montagna del Signore» con mani innocenti e cuore puro. Certi che verso il Signore non si va da soli, se uno si lascia attirare, molti vengono trascinati, perché l’influenza del Bello è molto contagiosa.

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