Tra rivelazione di Dio e divinizzazione dell’uomo
Robert Cheaib

La vicinanza semantica tra il linguaggio filosofico ellenistico e il Prologo di Giovanni non ci deve ingannare annegando la loro differenza. Mentre il logos stoico si innesta in un pensiero volto alla ricerca di un’armonia cosmica in cui l’uomo è chiamato a inserirsi (vivere kata physis è sinonimo di vivere kata logon), nel quarto Vangelo il Logos non è un ordine universale o naturale, ma manifesta un carattere personale, ipostatico che lo pone in un rapporto concomitante con Dio – «era presso Dio, era Dio» (Gv 1,1) – e con l’uomo – «e il Logos divenne carne e pose la sua tenda in mezzo a noi» (Gv 1,14).
La fede cristiana è sempre invitata ad appropriarsi nuovamente di questa grande eredità personale. Da qui il contributo del teologo Pierluigi Sguazzardo nel volume
Incarnazione edito da Cittadella Editrice e volto a considerare questo concetto chiave della fede quale evento fondamentale per comprendere l’identità e la missione di Gesù Cristo e approfondirne il contenuto, attraverso l’assunzione del metodo genetico e storico suggerito alla teologia dal Concilio Vaticano II.
In ambito teologico, e nel nostro caso, in ambito cristologico, la svolta del Vaticano II ha permesso, da un lato, il superamento di una visione troppo intellettualista e concettuale della Rivelazione. Dall’altro lato, ha contribuito a una nuova fecondità grazie alla convergenza rinnovata tra Scrittura e riflessione teologica. È innegabile il valore della concomitanza auspicata e ricercata tra teologia biblica e teologia sistematica, la quale ha agevolato la redenzione della cristologia dalle strette grinfie dell’ontologia astratta, verso lo spazio aperto di una cristologia in stretto nesso teologico ed ermeneutico con la soteriologia, l’antropologia e l’escatologia.
Dopo la riflessione sugli apporti del Concilio, il libro passa in rassegna i due testamenti mostrando come la speculazione veterotestamentaria, pur non affermando il mistero dell’incarnazione esplicitamente, faccia trapelare delle assonanze teologiche con il tema, attraverso figure e realtà con tratti personali come la Parola e la Sapienza.
Della sapienza, ad esempio, Rudolf Schnackenburg scrive sintenticamente: «Dalla speculazione della sapienza sorge l’idea della sapienza preesistente e venuta sulla terra; questa si congiunge con la Parola di Dio e la Torah, divenendo infine, col Figlio dell’Uomo, una figura individuale che dimora presso Dio e diventa la luce dei popoli e la speranza degli afflitti».
La riflessione di Sguazzardo si sposta al NT dove si nota un movimento di abbassamento-esaltazione del Figlio nel seno della storia della salvezza. I sinottici offrono una fenomenologia della figura di Gesù che si trova costitutivamente spinta a interrogarsi sul magis che si manifesta in lui e che rimanda alla sua pre-esistenza e alla sua natura divina. Ma è nel corpus giovanneo che il linguaggio dell’incarnazione di Dio trova la sua espressione più matura e sublime. Giovanni «ci introduce nel contesto di una vera e propria cristologia della Parola “che, per quanto come titolo (o Logos) compaia solo nel Prologo, costituisce tuttavia il punto di vista proprio di tutta la cristologia del quarto vangelo”». Il Prologo afferma a chiare lettere l’identità tra l’Incarnato e il Preesistente, non solo di un’identità letteraria, ma anche storica e personale.
Quello che risalta dalla considerazione del NT (corpo paolino incluso), è che il mistero dell’incarnazione non è solo «l’avvenimento storico della manifestazione della “gloria di Dio” nel mondo, ma è anche la più alta rivelazione del “mistero dell’uomo” secondo il progetto del Padre fin dall’eternità (cfr. Ef 1,4-5)» (64).
Passando ai contributi patristici vediamo come sant’Ignazio di Antiochia, dovendo contrapporsi alla visione ostile alla corporeità e alle tendenze spiritualistiche in merito all’incarnazione del primo docetismo, di fatto ribadisca il realismo dell’esistenza carnale di Gesù Cristo. Cristo, infatti, è sarkophoros (portatore della carne: Smirne 5,2).
L’importanza teologica e specificamente soteriologica è sottolineata in sant’Ireneo di Lione: «Gesù Cristo Signore nostro, che per il suo sovrabbondante amore si è fatto ciò che siamo noi, per fare di noi ciò che è lui stesso» (Adv Haer. V, Prologo). L’autore antignostico sottolinea l’importanza e la veridicità dell’incarnazione scrivendo: «Il Verbo di Dio si è fatto uomo, e il Figlio di Dio si è fatto figlio dell’uomo, affinché l’uomo mescolandosi al Verbo di Dio e ricevendo l’adozione filiale divenga figlio di Dio. Perché noi non avremmo potuto avere parte all’incorruttibilità e all’immortalità in modo diverso, se non fossimo stati uniti all’incorruttibilità e all’immortalità. Ma come potremmo essere uniti all’incorruttibilità e all’immortalità, se prima l’incorruttibilità e l’immortalità non si fossero fatte ciò che noi siamo, affinché ciò che era corruttibile fosse assorbito dall’incorruttibilità e ciò che era mortale dall’immortalità, e noi ricevessimo l’adozione a figli?» (Adv. Haer. III,19,1).
Agostino, da parte sua, affermerà così la valenza dell’incarnazione: «Egli era nello stesso tempo Dio e uomo, poiché Cristo è uno solo: Dio e uomo. Fu preso l’uomo perché fossimo mutati in meglio, non abbassò Dio alle cose infime. Prese infatti ciò ch’egli non era senza perdere ciò che era. Essendo dunque Dio e uomo, volendo che noi vivessimo della sua natura, morì nella nostra» (Agostino, Sermo 80,5).
Sguazzardo analizza successivamente il periodo critico dell’illuminismo che affrontò generalmente l’incarnazione con un atteggiamento di rifiuto nel tentativo di ridurre il cristianesimo entro i limiti della pura ragione umana.
Nella prospettiva teologica contemporanea, il teologo presenta due linee paradigmatiche: «la linea teologica della “cristologia della discesa” (Karl Barth e Karl Rahner) che, a partire dal dogma cristologico, penserà l’incarnazione alla luce della nascita umana del Figlio di Dio; mentre, dall’altro lato, si imporrà la linea della “cristologia dell’innalzamento” e della risurrezione (Wolfhart Pannenberg e Walter Kasper) che, a partire da qui, cercherà di ricomprendere in modo retrospettivo questa verità centrale della fede cristiana» (108).
Gli ultimi due capitoli offrono il necessario completamento dello studio sull’incarnazione che non può limitarsi alla prospettiva storico-genetica, ma che deve puntare verso una necessaria sistemazione teologica che permette una comprensione attuale del mistero.
La riflessione degli ultimi due capitoli verte rispettivamente sul discorso dell’incarnazione in se stesso (e nel cuore del mistero trinitario) e in riferimento alla realtà creata con particolare attenzione alla dimensione della corporeità e del vissuto dell’uomo. Questi due filoni di riflessione scaturiscono naturalmente dalla storia e dal destino di Gesù Cristo, essendo egli, allo stesso tempo, Figlio del Padre (vero Dio) e uomo fra gli uomini (vero uomo).
Sintetizzando la convergenza divinumana, Sguazzardo scrive: «Cristo, “nuovo Adamo”, è colui che è in grado di attuare tale comunione tra Dio e l’uomo non soltanto perché egli unifica in se stesso la natura divina e la natura umana, quanto piuttosto perché, nella sua persona, unifica la relazione eterna con il Padre e la realtà dell’uomo. Detto in altri termini, egli è realmente il “Mediatore” tra Dio e gli uomini» (136).
L’opera – un condensato della teologia dell’incarnazione – mette in valore non soltanto la dimensione teologica dell’incarnazione, ma tira le somme antropologiche dell’evento, mostrando come l’incarnazione di Dio valorizzi la dimensione della corporeità, salvando di fatto il cristianesimo da ogni riduzionismo spiritualista.
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