Una riflessione con Karl Rahner

Robert Cheaib

 Che fede sarebbe una fede che non tiene conto dell’uomo, dei suoi dubbi, dei suoi affetti, dei suoi tentennamenti e slanci, del suo coraggio e del suo tremore? La fede è un atto divinumano. È, sì, dono di Dio, ma è anche un impegno umano. È, sì, una chiamata di Dio, ma è anche una risposta dell’uomo. Nella nostra considerazione del fenomeno del credere, viene spesso inflazionato uno dei due aspetti a discapito dell’altro, privando la fede di una delle
sue dimensioni più belle: il libero incontro amoroso tra due libertà, quella divina e quella umana.

Se l’analfabetismo religioso dilagante ha offuscato per tanti il cosa crediamo, è ancor meno chiaro come crediamo. Karl Rahner, un grande teologo particolarmente attento alla genesi e all’inverarsi dell’avventura credente, offre varie pagine che rintracciano i fili essenziali che compongono il tessuto della fede. Le Edizioni San Paolo ci offrono tre assaggi importanti del pensiero di Rahner nel libro Il coraggio di credere. La fede tra coraggio, razionalità ed emozione.
L’interesse di Rahner in queste pagine non è apologetico ma piuttosto fenomenologico. Il teologo guarda la fede nella sua relazione a dimensioni importanti del nostro vissuto. In particolar modo, la sua attenzione verte sul coraggio, l’entusiasmo e l’emozione. Ne risulta un’analisi che risalta l’aspetto poliedrico e onnicomprensivo dell’atto di fede.

Un salto di coraggio
Riflettendo sul nesso tra fede e coraggio, Rahner apre la sua riflessione così: «La fede cristiana, […] contrariamente all’impressione corrente, è in fondo una cosa semplice (e solo per questo difficile), perché è la concretezza di qualcosa che chiamiamo “coraggio”, a patto che concepiamo tale “coraggio” in tutta la sua radicalità in rapporto alla totalità dell’esistenza umana» (15). Il coraggio è associato alla speranza. Anzi, in fondo, è speranza.
Il coraggio che è la fede non è, però, il coraggio di fare tale o tale cosa, bensì «il coraggio verso se stessi nella totalità unitaria della propria esistenza umana» (24). Tale coraggio è indispensabile per la fede in Dio quale Altro, libero e incomprensibile per l’uomo. L’uomo si trova a doversi liberamente affidare «a un’altra libertà e lasciarsela donare non come qualcosa di pericoloso, bensì come qualcosa che lo salva» (28-29). La fede è un invito alla follia: trovare il proprio fondamento fuori di sé. La propria sicurezza nell’affidarsi all’ineffabile affidabile.
Da qui si vede la natura della fede come un gesto di coraggio estremo. È un gesto di doppia fedeltà all’Altro e a se stessi, al dettame della propria coscienza quale eco dello Spirito. «Ovunque l’uomo rimane fedele in modo assoluto al dettame della coscienza, ovunque con un’ultima decisione, nonostante tutte le delusioni e i fallimenti della sua esperienza terrena, non respinge un’ultima speranza di natura incondizionata, là egli si abbandona sperando al movimento illimitato e non più calcolabile del suo spirito, là coltiva la speranza e la fede, là – per dirla in termini cristiani – è presente lo Spirito Santo, che uno sia in grado di verbalizzarselo in maniera esplicita o meno» (35-36).

L’entusiasmo della mistica quotidiana
Il salto accennato poc’anzi può avvenire nel tedio e nella normalità di ogni giorno. Non richiede eventi apocalittici o costellazioni particolari. È la mistica del quotidiano e l’ordinaria esperienza dello Straordinario di cui Rahner si è fatto araldo. L’esperienza dello Spirito nella sua essenza teologica è infatti una «radicalizzazione della trascendalità dell’uomo» che avviene grazie alla grazia increata, ovvero, l’autocomunicazione stessa di Dio. Così Dio non è più un traguardo finale, «asintoticamente perseguito ma mai raggiungibile», ma diventa la linfa, il lievito e la forza stessa del cammino dell’uomo verso Dio.
In tale grazia increata «Dio stesso costituisce sia l’orizzonte sia il fondamento portante degli atti che si riferiscono a lui» (60). Con il giusto discernimento e la verifica del radicamento nell’oggettività della fede, Rahner mostra che l’entusiasmo stesso «nel suo complesso rappresenta un’autentica esperienza di grazia» (66).