Una riflessione sulla qualità della presenza cristiana nelle metropoli
Robert Cheaib

La fede migliora le nostre città? – Jorge Mario Bergoglio (Papa Francesco) risponde senza esitazione: «Sì, nel senso che solo la fede ci libera dalle generalizzazioni e astrazioni di uno sguardo illuministico che dà come unico frutto altri illuminismi».
La riflessione dell’allora cardinale
Bergoglio si sviluppa nel libretto Dio nella città, edito dalla San Paolo
Il volumetto offre al lettore italiano il capitolo primo del libro Dios en la ciudad, dell’allora arcivescovo di Buenos Aires.
Bergoglio riflette sul documento conclusivo della V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi (Aparecida, maggio 2007) e in modo particolare sui paragrafi 509-519 che trattano della pastorale urbana.
La riflessione dell’allora arcivescovo di Buenos Aires intende essere una condivisione della convinzione di «un pastore che cerca di andare a fondo nella sua esperienza di credente, di uomo che crede che “Dio vive nella sua città”» (6).
L’affermazione di Aparecida che costituisce il titolo del volume è una sfida, soprattutto per le città attuali dominate da un senso di a-teismo. A differenza dei tempi passati, il cristiano di oggi non vive più in prima linea nella produzione culturale, ma riceve (e a volte subisce) l’influenza e l’impatto di una cultura più o meno lontana dal Vangelo.
La sfida che i cristiani di oggi devono affrontare non è molto diversa da quella dei primi cristiani. I cristiani dei primi secoli possono esserci allora da maestri nell’inter-culturazione e nella qualità della presenza.
I cristiani di oggi sono chiamati a seguire le orme della prima Chiesa la quale – come afferma il documento di Aparecida – «si formò nelle grandi città del tempo e si servì di esse per espandersi». L’invito è a vivere una pastorale urbana che esce per andare incontro, accompagnare ed essere fermento.
La presenza cristiana deve arricchirsi di un «immaginario teologico» capace di apportare il magis del Vangelo con intelligenza, concretezza e acuta sensibilità.
Lo sguardo cristiano deve al contempo scrutare e illuminare la città. Da buon gesuita, Bergoglio sottolinea l’importanza del discernimento culturale, di sapere chiamare le cose con il loro vero nome.
Il cristiano deve inoltre concepirsi come fermento evangelico nella società. Ci dobbiamo sempre sorprendere con «le mani in pasta, coinvolti nella situazione dell’uomo concreto così come essa si da, implicati con tutti gli uomini in un’unica storia di salvezza» (31).
L’incarnazione è in fin dei conti anche una inculturazione, è un invito a vivere a fondo l’umano. Il discernimento va accompagnato dall’illuminazione che i cristiani devono portare nella città, soprattutto nei suoi angoli più bui ed abbandonati. È un’esigenza intrinseca della fede stessa perché – come insegna Giovanni - «chi dice di credere in Dio e “non vede” suo fratello, inganna se stesso» (36).

Bergoglio riassume infine lo sguardo alla città che vuole proporre con il quadro della contemplazione dell’incarnazione presentata da sant’Ignazio nei suoi Esercizi spirituali. Si tratta di uno sguardo che «non si lascia impantanare in quel dualismo che va e viene continuamente dalle diagnosi alla pianificazione, ma si coinvolge drammaticamente nella realtà della città e si impegna con essa nell’azione». Sant’Ignazio ci propone di guardare la creazione come la guarda la Trinità. Non è uno sguardo che ascende dal tempo all’eternità, ma uno sguardo umile, compassionevole che scende, si china. Il nostro deve essere «uno sguardo che permette al Signore di “incarnarsi di nuovo” (ES 109) nel mondo così come è».