Il trauma e la testimonianza dello Spirito
Robert Cheaib
I cristiani sono talmente abituati al passaggio teorico dalla croce alla risurrezione da vedere ormai quasi una logica continuità: prima vi è la sofferenza, l’ignominiosa morte e dopo arriva the happy ending e il canto dell’alleluia. La vita emerge trionfale e annienta la morte. Questo passaggio indelicato non solo dimentica la storia umana, i suoi irrisolti «perché» sulla sofferenza e sulla morte, ma soprattutto non rispetta il «sabato santo», la spaccatura e il contrasto, quel quadro dipinto con sfumature di un silenzio non qualsiasi, del silenzio della Parola, del silenzio in/di Dio. Questo passaggio dimentica anche che il risorto è sempre il risorto crocifisso che porta i segni della passione, che sono, sì, segni d’amore, ma pur sempre segni di ingiustizia, di dolore, di «amore non amato»… sono «quel che resta del dolore».
Nel suo volume Quel cheresta del dolore. Il trauma e la testimonianza dello Spirito, la teologa americana Shelly Rambo dedica la sua riflessione e la sua sensibilità all’analisi di quest’interstizio dell’esperienza umana tra la tempesta che passa e il «dopo la tempesta» che rimane. La traduzione italiana del volume, curata da Giuseppe Mazza, si inserisce nella collana Universo teologia Limina delle Edizioni San Paolo dedicata alle tematiche «limite» spesso marginalizzate nella riflessione teologica, ma non tali nel vissuto quotidiano di credenti e non.

Il trauma
Il trauma è per natura ciò che non va via. È la trasformazione dell’esperienza di sofferenza in sintomi che sopravvivono nel corpo, nei ricordi che tornano e che forse ci perseguitano. Il trauma è «un incontro con la morte» che non è, però, morte in senso letterale. È un’esperienza intermedia che fa sì che la vita assuma una «definizione sostanzialmente diversa» la cui vulnerabilità la qualifica come «vita sempre mista alla morte» (22-23).
Le «teodicee» tentano di riconciliare il rapporto antitetico tra le affermazioni religiose su Dio (bontà, onnipotenza, onniscienza) e l’esperienza del male e della sofferenza, ma non giungono a dare una risposta efficace e sentita alla sofferenza stessa, o meglio, all’uomo che ha sofferto, che soffre e che porta il trauma come residuo per-manente della sofferenza.
Non di rado, le sofferenze vengono rivestite (investite?) con gli abiti di festa della speranza in una maniera troppo precoce, lasciando uno spazio oscuro e non visitato dal Vangelo: quello del cuore che si chiede ancora perché? Perché a me? Dove è/era Dio? La persona che ha sperimentato il dolore non vuole un Vangelo che cancelli la sua storia, ma che la illumini, che la visiti e che costruisca un futuro di speranza dalle fibre del corpo morto e non da un surrogato estraneo. Se non si ha la pazienza della semina della speranza si incorre nel rischio di «occultamento della realtà della morte nella vita stessa» (27).
La convinzione di Shelly Rambo è che il cristianesimo è capace di offrire, a chi ha sperimentato il trauma, chiavi teologiche, ermeneutiche ed esperienziali per teologizzare e interpretare la fase intermedia che, non è l’evento della croce e neppure quello della risurrezione, ma i dinamismi che sussistono fra i due. È qui che risiede la buona notizia, «nella capacità della teologia cristiana di testimoniare tra morte e vita, ovvero nella sua capacità di dar forma a una nuova riflessione tra le due dimensioni» (29). La teologia viene presentata, quindi, come «discorso di guarigione» che cerca di trasformare le realtà di sofferenze attraversate.

Sopra-vivere e testimoniare
Il trauma costituisce una «lente infranta» che debilita la capacità personale di considerare il passato, ma anche quella di immaginare il futuro (50). Attraversare il trauma e continuare a vivere diventa un evento che, nelle parole di Jacques Derrida, può essere qualificato come sopra-vivere. È letteralmente così: dopo un’esperienza di sofferenza o si muore (se non fuori, sicuramente dentro), o si vive su un piano superiore. Il termine sopra-vivere suggerisce «l’idea della vita che eccede se stessa. Tale eccedenza o traboccamento emerge dall’esperienza della morte» (59).
Testimoniare tale sopravvivenza diventa un modo per rendere ragione della fede nel cuore delle realtà traumatiche. Si tratta di uno spazio dove viene seriamente coinvolto «il disorientarsi del tempo, della parola e del corpo, nel quadro delle molteplici elisioni che lo costituiscono» (87).
La testimonianza riconosce e raccoglie la natura infranta della parola, del corpo, della storia individuale e comunitaria nella testimonianza che spinge verso una particolare manifestazione dello Spirito, non tanto come «datore di vita», ma come «testimone dell’emergere della vita dalla morte».

Il sabato santo e la testimonianza in Giovanni
La teologa riflette sull’istanza del sabato santo approfondita da Hans Urs von Balthasar in dialogo con la teologia e le esperienze mistiche di Adrienne von Speyr. Il teologo di Basilea getta uno sguardo prospettico sulla redenzione oltre la morte in croce e prima dell’alba della risurrezione, esaminando lo spazio intermedio della discesa negli inferi. Balthasar descrive quell’esperienza teologica come un dramma che va oltre la nostra stessa comprensione. È quella dimensione dove tra passione e risurrezione «non vi è luce, non vi è vita, non vi sono parole» (124).
Lo sguardo dell’autrice enuclea l’espediente narrativo che dialoga con questa sensibilità del silenzio di Dio in una scena che distingue il racconto della passione giovannea. Si tratta della scena del soldato che trafigge con la lancia il corpo esanime del Crocifisso. L’acqua è generalmente intesa come simbolo di vita, ma in questa pericope giovannea, l’acqua compare in un ambito di morte. «I fluidi della morte e della vita sono mescolati insieme, e contrassegnano nel testo uno spazio da cui scaturisce una testimonianza particolare» (155): una testimonianza tra morte e vita, tra croce e risurrezione.
Inoltre, la testimonianza giovannea si declina con due termini precisi: rimanere (ménein) e trasmettere (paradidónai). Il primo è un modo di esprimere un diverso tipo di presenza necessario a seguito della morte di Gesù. «È una presenza che prende la forma del sopportare, del resistere, del persistere. È una presenza che accompagna e custodisce, portando sempre con sé i segni della sofferenza e della morte» (194). Il secondo termine – trasmettere – rimanda alla consegna, all’attenzione verso coloro che rimangono, a Giuda che consegna ma soprattutto allo Spirito che è consegnato.
I due termini non rimandano a una testimonianza forte o arrogante, ma a una presenza infranta. Essi rappresentano «la caotica e inconcludente esperienza del vivere oltre la morte» con l’annuncio della risurrezione. Sopra-vivere prende forma attraverso l’imperativo di rimanere e di amare.
I paradigmi personali di questa testimonianza sono il discepolo amato e Maria Maddalena. Entrambi «attestano un evento di morte in e attraverso un diverso concetto di vita che ne emerge: non un’immagine di vita nuova e trionfante, ma la persistente testimonianza resa all’amore che sopravvive» (204).

Lo Spirito intermedio e l’amore che rimane

La consegna dello Spirito esprime la potenza di Dio che rimane oltre la morte e nel trauma. «Dio non è potente nella distanza, ma nella sua intima relazionalità verso tutte le cose». La presenza dello Spirito è testimonianza che «Dio è vulnerabile rispetto al mondo, è coinvolto in esso. Lo Spirito, come figura del desiderio divino, esprime la potenza nell’apertura e nella vulnerabilità» (239).
Gesù che consegna lo Spirito testimonia che l’amore rimane. Il soffio vitale si estingue, ma non è assorbito dalla morte. Persiste proprio nel suo consegnarsi. L’amore rimane come testimonianza viva nell’abisso. «Non trova dimostrazione nella capacità di pronunciare la vita, ma in quella di recare testimonianza in e attraverso la morte al soffio dell’amore divino. Nell’intermedio la vita non può essere vista, e per tal motivo dev’essere testimoniata» (251).
In una storia commista di morte e vita, è evidente che la morte rimane. La vita non può allora essere concepita a prescindere da essa. Il comando dell’amore testimonia la possibilità del «no», del lasciarsi assorbire dalla voragine cupa dell’odio e del rancore che il male alimenta naturalmente, ma testimonia anche una possibilità kairologica: il «sì» che fa sì che quel che resta del dolore possa essere anche «l’amore che rimane», sopravvive, permettere di sopravvivere, e anche se a un prezzo ingente, di vivere in pienezza.