Quattro racconti di Anton Čechov
Robert Cheaib
Anton Čechov è uno dei maestri del racconto breve che ha fiorito dalla metà dell’ottocento. La contingenza economica lo aveva costretto a perfezionare l’arte del racconto breve. Egli era, infatti, tra quelli scrittori che pubblicavano novelle brevi, su quotidiani e riviste, per offrire al pubblico storie fruibili ma coinvolgenti. La brevità richiesta dal genere giornalistico fu occasione propensa per Čechov per perfezionare uno stile che lo distinguerà.
Il suo stile è ben diverso da quello dei grandi scrittori russi dell’ottocento come Dostoevskij o Tolstoj. Le descrizioni sono minimali, come anche i dialoghi. Manca pure la proposta etica o ideologica. I racconti di Čechov sono senza pretesa. Il pensiero personale di Čechov è quasi inafferrabile. Lui è più un fenomenologo distaccato che narra senza apparente finalità, ripercorre senza optare, descrive senza affezionarsi. Era convinto, infatti, che «l’uomo diventerà migliore quando gli si mostra la propria verità così come è». Le sue si presentano, quindi, come parabole asettiche lasciando a ognuno l’impegno e la fatica di leggersi dentro, per quanto e quando è possibile.
Lo stile di Čechov è essenziale, ancorato alla realtà, positivista, ateo, amorale e materialista. Quello che gli interessa è mettere in luce la situazione umana nella sua misera verità: «Noi non abbiamo scopi, né vicini né lontani, e la nostra anima è vuota. Non abbiamo opinioni politiche, non crediamo più alla rivoluzione, Dio non esiste, nessun fantasma ci fa paura».
Nonostante ciò, Čechov non può essere liquidato come un ateo insignificante o superficiale. I suoi racconti rivelano un tessuto complesso. Il vuoto è solo apparente, colto dai cinque sensi, ma la profondità dell’uomo è ancora un immenso da scoprire, da decifrare. Čechov non risponde, ma senza volerlo (o forse volendolo) lascia uno spiraglio di luce, uno spiraglio che si apre forse grazie all’aria cupa lasciata dal vuoto intollerabile.
Questa complessità e profonda ricchezza guadagnano per alcuni dei racconti di Čechov un posto tra i volumi della collana biblioteca universale cristiana delle Edizioni San Paolo. Si tratta di quattro racconti: Il vescovo, Lo studente, Il monaco nero e Il violino di Ròtschild.
Riccardo Ferrigato, il curatore del volume Il vescovo e altre novelle, individua il denominatore comune tra questi racconti: siamo dinanzi a quattro uomini «chiusi in se stessi, vittime di una profonda solitudine impossibile da aggirare e lasciarsi alle spalle. Puntate che raccontano un destino che colpisce tutti, quello dell’incomunicabilità, di una distanza abissale con gli altri e dell’incapacità di costruire relazioni sociali e interpersonali».  La solitudine, d’altronde, è un tratto esistenziale di cui Čechov è convinto. Lui che ebbe a scrivere: «Se temete la solitudine, non sposatevi». L’unica certezza pare essere solo la sofferenza. La certezza della sofferenza e della solitudine è focalizzata nel momento della morte vista, non come occasione di redenzione e di passaggio, come il momento del rimpianto della vita perduta nei meandri della solitudine. Čechov non da risposte di senso, ma forse la sua fatica di porre la domanda è un invito a riflettere, a rileggere l’esistenza, la propria esistenza sotto una luce sensata, a rinvenire il proprio senso. Forse il vuoto che dipinge e di cui fa sentire il peso è un richiamo di Dio, è un’apertura a una possibile esperienza religiosa.