Analisi storiche e rilievi ermeneutici

di Robert Cheaib
«È raro che a un concilio non segua una grande confusione», così si esprimeva John Henry Newman in una lettera all’indomani del concilio Vaticano I. Ogni concilio ecumenico ha rappresentato nella Chiesa uno spartiacque tra dissidenti e consenzienti. Ciò che si applica a tutti gli altri concili specificamente dogmatici, si invera anche nel «primo concilio prettamente pastorale», seppure con sfumature diverse.
Giovanni Rota spiega che «la confusione che si è diffusa dopo il Vaticano II si radica nell’indole stessa della dottrina conciliare che non vuole, solitamente, prendere le difese di una sola corrente teologica, ma mira a ottenere il massimo del consenso possibile, comportando di conseguenza concessioni da parte di tutti: il testo conciliare risulta così un mosaico di incisi, di distinguo, di precisazioni e attenuazioni». Il Vaticano II non era il concilio dell’ufficializzazione di una scuola teologica a scapito di tutte le altre, ma era un concilio dove i vari filoni delle diverse scuole hanno confluito per ricamare il tessuto della Chiesa che avrebbe varcato la soglia del terzo millennio.
Le luci e le ombre che contraddistinguono l’ermeneutica di ogni evento nella storia umana non sono estranee anche all’evento conciliare. Bisognerebbe però riconoscere con Giovanni Paolo II, all’alba del terzo millennio (nell’enciclica programmatica Novo millennio ineunte, 57), che con il Concilio ci è data «una sicura bussola per orientarci nel cammino del secolo che si apre» e che l’evento conciliare è «la grande grazia  di cui la Chiesa ha beneficiato nel secolo XX».
Da qui il valore dell’opera curata dalla Scuola di Teologia del Seminario di Bergamo per le Edizioni San Paolo sotto il titolo Teologia dal Vaticano II. Analisi storiche erilievi ermeneutiche. Il volume raccoglie i contributi di otto teologi di rilievo: Angelo Bertulletti, Mons. Franco Giulio Brambilla, Luca Bressan, Maurizio Chiodi, Alessandro Cortesi, Massimo Epis, Giovanni Rota, Goffredo Zanchi. Le varie indagini puntano a comprendere il cammino che il Vaticano II ha indicato alla Chiesa quale compito urgente. La convinzione che si può evincere dai contributi è che il Vaticano II – nel suo cinquantesimo anniversario – non va tanto celebrato quanto compreso e vissuto.
Prendendo atto della metafora Wojtylana della «bussola», Mons. Franco Giulio Brambilla ci cristallizza l’intenzione del libro: quella di essere una lettura interpretativa per «far brillare il senso del Vaticano II alla “prima generazione” del postconcilio, nata senza aver vissuto il concilio».

La verità dottrinale e il suo rivestimento linguistico
L’aggiornamento pastorale voluto da Giovanni XXIII per il concilio nasce dalla coscienza espressa dal manoscritto del discorso dello stesso pontefice che mette in evidenza la differenza tra la «sostanza» della dottrina e il suo «rivestimento». Il testo manoscritto sarà modificato dalla mano latina e figurerà in un modo diverso nel testo ufficiale presente nell’Enchiridion Vaticanum. Il testo di Papa Roncalli invece suonava così: «Altra è la sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei, ed altra è la formulazione del suo rivestimento: ed è di questo che devesi – con pazienza se occorre – tener gran conto, tutto misurando nelle forme e proporzioni di un magistero a carattere prevalentemente pastorale».
Papa Giovanni è cosciente della reciproca pertinenza non accidentale tra verità e linguaggio, tra la verità e il modo con cui viene formulata e proposta. Il processo di traduzione, di «aggiornamento», però, lungi dall’essere un gioco da bambini, è una questione seria che richiede un radicamento nella sostanza che non decade nel radicalismo e una capacità/immaginazione ermeneutica che non decade nel fantasioso. Secondo un’espressione simpatica di un’autorevole interprete del Concilio, il teologo domenicano Edward Schillebeeckx, non si può sfilare il «rivestimento» dalla «sostanza» della fede con la stessa disinvoltura con cui le bambine vestono e svestono le loro Barbie. Ridire l’Evento cristiano per l’oggi non è stato un compito facile, e noi, la prima generazione postconciliare abbiamo il grande compito di fedeltà creativa di proseguire l’afflato conciliare e di fare frutto della sua eredità che possiamo riassumere in quattro punti (desunti dall’intervento di Brambilla):
-- «La prima eredità del concilio è quella di una Chiesa che passa da una comunità del “sentir messa” a una Chiesa che “celebra”». È la coscienza che il concilio ha aperto il diritto della preghiera non solo alle varie lingue locali, ma anche alle varie sensibilità, gestualità, tradizioni musicali delle varie chiese che costituiscono la sinfonia cattolica.
-- La seconda eredità del concilio è la riapertura dello scrigno della Parola. Dopo un esilio della Parola e un digiuno imposto al popolo durato quattro secoli, il concilio ha ridato la Parola al popolo da essa radunato. Quest’eredità è una dell’ascolto che non è solo quello verticale, ma anche è un ascolto orizzontale dell’altro nella sua diversità, è un ascolto dei «segni dei tempi».
-- «La terza eredità del concilio è stata la ripresa dell’immagine comunionale e comunitaria della Chiesa: come dice lo slogan un po’ frettoloso, dalla Chiesa societas organica alla Chiesa comunione». È una «Chiesa del popolo» non perché si oppone a una Chiesa di élite, ma perché è adunata con una vocazione comune alla santità e alla perfezione nell’amore.
-- Infine, «la quarta eredità del concilio è stata la più incisiva, ma anche la più indeterminata: l’apertura della Chiesa al mondo, una Chiesa per gli uomini». L’apertura espressa dalla Gaudium et spes, colorata da una che di ingenuo, va letta in filigrana con Spe salvi, la seconda enciclica di Benedetto XVI che si mostra più attenta «al carattere ambivalente dei segni dei tempi, e quindi in ricerca di una speranza “a caro prezzo” che vede nel realismo della speranza e dei suoi segno lo spazio perché la fede si giochi nel tempo disteso».
Questi quattro punti delineati nell’intervento di Brambilla costituiscono una premessa paradigmatica al discernimento dell’eredità conciliare proposta dai vari autori. Il libro si presenta quindi come un succinto quadro che ravviva la memoria del concilio non per imbandire una nostalgica mensa del passato ma per discernere l’eredità e i compiti che i Padri conciliari hanno lasciato per il «futuro» della Chiesa che a noi tocca rendere «presente».
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