Un genio religioso paragonabile al «personalismo» agostiniano

di Robert Cheaib

Quindici anni fa l’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Joseph card. Ratzinger, ha considerato Newman come uno dei massimi personalisti del cristianesimo. Il cardinale teologo vedeva in lui un calibro di attenzione e di auscultazione del soggetto umano che non è stato così presente nella storia del pensiero cristiano dai tempi di Agostino d’Ippona.
Due anni fa, il 19 settembre 2010, lo stesso Ratzinger, ormai Papa Benedetto XVI, ha voluto officiare personalmente la beatificazione di John Henry Newman. Il desiderio del Papa di volere presiedere una celebrazione che egli stesso ha voluto che fosse delegata alle gerarchie delle chiese locali mostra non solo l’affetto personale che il Pontefice nutre verso la figura di Newman, ma evidenzia l’importanza e l’attualità di questa figura per tutta la Chiesa.

John Henry Newman ha dato un contributo prezioso e profetico alla fede cristiana e alla teologia in vari ambiti. Non a caso il Papa Paolo VI ha definito nel 1975 la seconda metà del XX secolo e in particolare i tempi del Concilio Vaticano II come «l’ora di Newman». Il genio religioso di Newman ha spaziato e offerto le sue acute e illuminanti intuizioni a tanti ambiti di grande attualità spirituale, teologica e sociale. Basti pensare alla sua teologia del laicato, alla teoria dello sviluppo dei dogmi, alla teologia dell’immaginazione religiosa, alla visione allargata dell’intelletto (implicit reason – explicit reasion).
È difficile racchiudere in pochi paragrafi il vasto e splendido ventaglio di quanto Newman ha dato alla ragione teologica e al cammino dell’uomo verso Dio. Il mio intento è invitare a conoscere Newman a partire da un aspetto affascinante della sua visione: quello del cammino dell’uomo verso Dio a partire dalla sua coscienza, ciò che Ratzinger ha definito come la «via della coscienza» (Gewissensweg) di Newman.
Nel formulare l’argomento di coscienza, Newman cerca una prova che tocca la realtà dell’uomo in ciò che egli è. Gli argomenti classici dicono poco degli attributi morali di Dio e si concentrano di più sugli attributi metafisici che aiutano poco l’uomo nella ricerca di un incontro riconciliante con sé, con l’esistenza e con Dio. Un’argomentazione riguardo all’esistenza di Dio basata soltanto sull’ontologia istituisce una religione basata sulla filosofia – e per la precisione su una certa filosofia parziale e monca che riduce l’uomo alla testa e la ragionevolezza al sillogismo – e non su un’esperienza religiosa o spirituale.
È importante precisare che Newman non nega totalmente la validità degli argomenti esteriori per l’esistenza di Dio, ma questi, qualora venissero considerati come esclusivi, non potrebbero costituire un fondamento nell’esperienza religiosa, anzi essi presterebbero il fianco a tante critiche risultando spesso come contro-prove. Egli sostiene che gli argomenti potrebbero al massimo portare a un «notional assent» e a un’affermazione astratta dell’esistenza di Dio. La coscienza, al contrario, ci confronta direttamente con Dio come una realtà pro-esistente e relativizzante della nostra esistenza. Per Newman, lo sguardo sul mondo senza l’ascolto della voce che parla nella coscienza ha per l’uomo due esiti estremi: l’ateismo o il panteismo. Il mondo sembra piuttosto il testimone dell’assenza di Dio dal mondo. Il mondo non dà la risposta-Dio, ma è spesso il luogo del silenzio di Dio, dell’eclissi di Dio (La Gottesfinsternis di cui parla Martin Buber).
Allo stesso modo che i cieli narrano la gloria di Dio e il cielo stellato suscita lo stupore quasi religioso, i disastri naturali pongono tanti dubbi e perplessità sull’esistenza di Dio, sulla sua potenza e autorità nel mondo. Newman si troverebbe in pieno accordo con M. Buckley che afferma: «Solo la coscienza umana può dare risposte alle domande poste dalla natura e non la natura stessa»
Gli argomenti esterni, quindi, sono pieni di aporie e di quell’ambiguità di violenti contrasti che contraddistinguono il mondo e la storia. L’argomento ideale dei gradi di perfezione – secondo Newman – non regge al confronto con lo stato reale del mondo che sembra più il rotolo dei lamenti e dei guai dei profeti.
La coscienza, invece, segna il punto d’incrocio tra la religione naturale e la religione rivelata. La coscienza è una fessura nell’immanenza che si apre alla trascendenza, è una nicchia di rivelazione. Essa è «un messaggero di Colui che, sia nella natura sia per la grazia, ci parla da dietro un velo».
Oltre al sé, un’unica altra realtà è certa: la realtà di Dio, la cui voce risuona nella testimonianza della coscienza. La coscienza che invita l’uomo a evitare il male e a fare il bene fa riferimento a un qualcosa che supera la persona stessa e implica l’esistenza di Qualcuno al cospetto del quale l’uomo è responsabile. Newman mette quest’argomento della coscienza sulle labbra di Callista, che già prima di scoprire la fede cristiana sente l’interpellanza e l’eco di Dio nella sua coscienza:
«Sento quel Dio dentro il mio cuore. Mi sento alla Sua presenza. Egli mi dice: Fa’ questo, non fare quello. Potete dirmi che questa prescrizione è solo una legge della mia natura, come lo sono il gioire o il rattristarsi. Non riesco a capirlo. No, è l’eco di una persona che mi parla. Niente mi convincerà che alla fine non provenga da una persona a me esterna. Essa porta con sé la prova della sua origine divina. La mia natura prova verso di esso un sentimento come verso una persona. Quando le obbedisco, mi sento soddisfatto; quando le disobbedisco, mi sento afflitto, - proprio come ciò che sento nell’accontentare o nell’offendere un amico riverito… l’eco implica una voce; la voce rimanda a una persona che parli. Quella persona che parla, io amo e temo».
Questo passo molto denso riassume tutto il percorso dell’affermazione – a partire dalla coscienza di sé e dal senso morale – del Dio personale e non di una mera legge o «something», di modo che possiamo sintetizzare tutta la fenomenologia realista di Newman così: cogito ergo sum e coscientiam habeo, ergo Deus est.

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